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A.SOKUROV, UN MAESTRO RUSSO DELLO SCHERMO. |
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di Antonio NAPOLITANO
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Uno dei sintomi dell’attuale livellamento in basso della cultura filmica è lo scarso interesse mostrato (e non solo dai distributori e noleggiatori) verso il cinema dell’Europa orientale. Ciò si nota, in particolare, nell’atteggiamento verso la rifiorente produzione russa, quella dei Kovalov, degli Tsymbal, Kanevsky, Bodrov e della Muratova e tanti altri, pressoché ignorati . Una (parziale) eccezione a conferma della regola è rappresentata dalla circolazione sui nostri schermi di qualche opera di Alexander Sokurov, dopo i ripetuti riconoscimenti a Cannes, Venezia, Berlino (Premio Wajda) e Montreal e Locarno ("Premio Bresson"). Nato nel 1951 in provincia di Irkutsk (Siberia), egli va a lavorare da giovanissimo per la televisione della città di Gorki. Due anni dopo, decide di specializzarsi al VGIK di Mosca (Istituto di studi cinematografici) seguendo i corsi del famoso documentaristica A.Zguridi, l’autore de "Nelle steppe dell’Asia centrale". Nel 1978, Sokurov esordisce col suo primo lungometraggio, "La voce solitaria di un uomo" (da A.Platonov che, ancor prima di M.Sciolochov aveva messo in dubbio la validità delle riforme agricole attuate nell’URSS). E’ chiaramente un film anticonformista che procurerà al regista difficoltà notevoli negli ambienti ufficiali. Perciò, passeranno almeno cinque anni prima che egli possa realizzare "Una dolorosa indifferenza" (1983), anche se, nel frattempo ha potuto girare qualche breve documentario (su Hitler e Shostakovitch, e altri soggetti). Nel 1987 dedica ad Andrej Tarkovsky "Elegia moscovita" che appare non solo un devoto omaggio ma un impegno a seguire le preziose orme del grande autore. L’anno seguente girerà "I giorni dell’eclisse" dal libro dei fratelli Strugatsky, il cui testo viene elaborato inserendo acute allusioni (e allegorie) sulla vita sovietica (ad esempio quel pullman in cui il protagonista è costretto a divincolarsi nel mezzo di una folla rissosa ma senza voce (come in un incubo notturno). Nelle 1989, il regista siberiano opera un’originale trascrizione della "Madame Bovary" in "Salva e custodisci": la vicenda è ambientata nella città di Tachkent (ed è solo in parte riuscita). Dopo vari altri documentari, nel 1990 è il momento de "Il secondo cerchio". Si tratta del seppellimento di un padre da parte del figlio. Il mesto rituale è seguito dall’occhio scrutatore della cinepresa che registra, minuto per minuto, la cupa angoscia diffusasi nel povero ambiente. Né il cineasta tralascia di tratteggiare la gelida indifferenza della funzionaria addetta al servizio mortuario. Il disordine della casa, i tempi morti dell’azione, l’inerzia spirituale dei protagonisti fanno da controcanto alla retorica sbandierata dal regime ad ogni occasione. Seguiranno numerosi documentari ("Elegia russa", "Pagine nascoste" eccetera) prima che nel 1995 appaia "Le voci spirituali". L’inizio del film consiste in un lungo prologo, un paesaggio russo invernale immerso nelle serene musiche di Mozart, Beethoven e Messiaen. In un secondo tempo, a contrasto col primo, il regista passa a riprendere il tran tran quotidiano dei giovani militari che pattugliano gli impervi confini con l’Afghanistan. Lo studio dei primi piani di quei volti imberbi restituisce il senso profondo di quanta ansia graviti in quelle persone, tra la polvere e il sudore di un ingrato mestiere. Senza alcuna sensazionale scena di guerra, se ne avverte l’oscuro e letale incombere ad ogni ora del giorno e della notte. All’inizio del ’97 nel duplice documentario "Diario di San Pietroburgo" Sokurov stila due commossi omaggi all’esimio collega G.Kozintsev e al grande Dostoevskij, in occasione dell’inaugurazione del monumento a lui eretto. Verso la fine dello stesso anno, "Madre e figlio" mostra una "Pietà" in cui però, è il figlio a sostenere e compiangere l’agonizzante genitrice. La storia è di una sublime semplicità, intrisa di affetti e dolori che troveranno consolazione solo nell’ineluttabile accettazione di un destino comune a tutti i viventi. E in tale film spicca, con ancor maggior frequenza, l’attenzione ai valori figurativi delle inquadrature sia dei paesaggi che delle persone. Mai essi sono fini a se stessi dato che risultano piuttosto i "correlativi oggettivi" ai cangianti stati d’animo. Nel 1998, "Conversazione con Soljenitsin" è la minuziosa registrazione di un lungo colloquio con lo scrittore, simbolo vivente della resistenza ad ogni sopruso dittatoriale. Da ogni sua frase, da ogni sua riflessione risalta la modestia di un testimone storico delle vicende sovietiche. E la sua magnanimità sta proprio nel celare la parte più sofferta della sua esistenza, senza rancore nè rabbia. Nel 1999, "Moloch" è il ritratto di un feroce despota, un’uomo "cosmicostorico" (Hegel) eppur visto nei suoi tic e vizi comuni. La cinepresa indaga su di una giornata qualunque di Hitler in compagnia di Eva Braun e dei suoi cani nel rifugio sulle Alpi salisburghesi. Le scene sono pervase da una calma soltanto apparente dato che da quelle montagne livide "l’Apocalisse fischia dal fondo" (L.Venzi). Il vento è l’alito ferale di una nemesi decisa a punire il delirio di onnipotenza. "Taurus", nel 2000, viene a sua volta, a descrivere il logorarsi del potere di un leggendario leader del comunismo mondiale. Sono gli ultimi giorni di Lenin, colpito da emiparesi che si trascina a stento nell’ambiente grigiastro di una villa ex-zarista. Gli pesa addosso tutta l’indifferenza di coloro che gli stanno intorno, compresi i medici che appaiono bruschi e sbrigativi nei suoi confronti. Né tanto più premurose risultano le sue stesse donne, la Krupskaja e Mascia, antica fiamma. Ipocrita al massimo è Stalin che viene a visitarlo dopo averlo isolato dal partito, per meglio manovrare la propria scalata al vertice. Anche le più piccole notazioni risultano acute e chiariscono di quale fragile creta sia fatto l’essere umano seppure giunto al più alto livello. Nel 2001, "Elegia di un viaggio" è l’affresco di un itinerario onirico da San Pietroburgo a Rotterdam: in uno strano incubo risuonano voci che leggono Dante, Cechov, Conrad e da un magico finestrino balenano opere di Brueghel, Seghers, Van Gogh. Soltanto in esse si ha la prova che qualcuno è vissuto veramente e che tutto il resto è scomparso. E’ un quasi mistico omaggio all’arte, fenomeno non transeunte nell’oceano tempestoso della Storia. Ugualmente "L’Arca russa" (2002) è un percorso all’indietro nel tempo la cui bizzarra guida è Custine, il discusso storico francese. La telecamera digitale di Sokurov si muove lungo i corridoi e dell’Ermitage di San Pietroburgo ritrovando non solo i capolavori d’arte ma gli stessi personaggi dell’epoca. È una sorte di rivisitazione nostalgica affollata dagli eleganti fantasmi del passato. Nelle 2003, il regista dedica "Padre e figlio" all’amico Golovts che gli è stato di grande aiuto nel corso degli anni più difficili. Viene esaminato così, un eccezionale rapporto di tenerezza e vi si configura una delicata apologia della famiglia. "Il Sole" (2005) racconta, invece, i giorni cruciali dell’agosto 1945 durante i quali l’imperatore Hiro-Hito si prepara ad annunciare la rinuncia al suo stato di divinità. Ancora una volta, viene esplorato un flusso di coscienza di un grande della terra nel momento del declino. Dal racconto traspare quella metamorfosi che gli ridà parte del sentire umano che si era andato congelando a nel frigido vuoto del cerimoniale. E’ una opera di grande sagacia introspettiva con angolazioni che massimizzano ogni dettaglio significante e inducono a riflessioni non comuni. "Elegia della vita" del 2006 è un reportage dedicato alla splendida coppia Rostropovich- Vishnevskaja. Per quasi due ore è scandagliato in molti suoi aspetti il loro affettuoso seppur dialettico modo di convivere: un sincero omaggio a due persone tanto lontane dal narcisismo delle "star" d’oggi. Nel 2007, Sokurov gira una docu-fiction in cui è protagonista (e attrice d’eccezione) la Vishnevskaja: "Alexandra" è la nonna che si reca coraggiosamente a visitare il nipote, militare in Cecenia. La complicata ricerca del giovane parente dà modo al regista di documentare l’apparente tranquillità degli accampamenti e la routine di giornate insieme dure e difficili. Il noto soprano è di rara efficacia nel ruolo, che essa vive con una partecipazione mai affetta da toni melodrammatici. Così, ad ogni volta, il maestro russo è riuscito a mostrare la profondità della sua visione del mondo.Come Tarkovsky, ha saputo avvolgere le sue inquadrature in un silenzio purificatore e ben a ragione Morandini ha annotato che "egli ha cercato la dimensione del sacro nell’umano". In tal modo si è interrogato sulla coscienza e sulla responsabilità anche dei più prestigiosi personaggi della storia del ’900, finiti come sappiamo. E tutto ciò al di là di quella "moda delle innovazioni" così da poter guardare il tempo nella sua interezza, e come fosse un continuo presente", come lui stesso ha dichiarato. |
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