The pacific: la guerra dell’oceano sbagliato
 







Boris Sollazzo




Scusate il ritardo. In America finirà la prossima domenica, in Italia comincia stasera su Sky Cinema 1 (dopo una bella anteprima al Telefilm Festival). Parliamo di The Pacific , la serie televisiva che forse cambierà persino il cinema. The Pacific , numeri da grande schermo (200 milioni di dollari di budget, 26.000 comparse, 138 attori, 90 set diversi e ben 7 anni di lavorazione, di cui 2 solo di post-produzione), è un capolavoro che vi lascerà estasiati. Ed esausti. Perchè quegli inferni tropicali che i marines percorrono per contrastare l’avanzata dell’impero giapponese nella Seconda Guerra Mondiale non hanno nulla di epico, consolatorio, grandioso. Sono battaglie infami, in cui la natura umana viene umiliata, in cui il primo caduto di quel corpo scelto che le macchine da presa seguono, la prima divisione dei Marines, è abbattuto dal fuoco amico: era andato a pisciare scordandosi di dire la parola d’ordine.
Una guerra atroce in cui sparare è un
gesto di pietà e far sopravvivere un nemico, spesso una tortura. L’etica di Eastwood con l’estetica di Spielberg, la musica di Hans Zimmer e di due grandi mestieranti delle sette note al cinema, Zanelli e Neely, regalano qualcosa che finora non avevamo ancora visto, né sentito. Band of brothers ci ricordava che c’era qualcosa di nuovo sul fronte occidentale, che lo sbarco in Normandia e la fine di Hitler avevano avuto pagine dure e difficili, che i soldati Ryan erano troppi e nessuno li salvava, soprattutto da se stessi. Ma era una guerra che si concludeva con la liberazione dei campi, con la cacciata del nemico. The Pacific , il sequel ideale di quella serie straordinaria, è qualcosa di inenarrabile: è una sconfitta in quattro tappe che diverrà vittoria solo perchè gli assi nella manica sono due bombe atomiche. Nessuna catarsi finale, neanche per i libri di storia riscritti dai vincitori. E’ lo stillicidio infame della Greatest generation , quella generazione di fenomeni di valori solidissimi e profondamente antifascisti, quei ragazzi che partirono pensando di liberare il mondo, ebbri della propria democrazia che già erano pronti ad esportare. Sei registi di razza, veterani della tv - su tutti Nutter, Van Patten e Podeswa che si accollano più episodi e danno una coerenza visiva e narrativa profonda alla miniserie - sceneggiatori di rango coordinati da Bruce McKenna, professionalità di prim’ordine ci consentono di trovarci di fronte a un prodotto unico e innovativo, politico e coraggioso, feroce e sentimentale. C’è forse sullo sfondo Malick e ovviamente Spielberg (che coproduce con Tom Hanks, come in Band of Brothers ), c’è Coppola nella goliardia disperata, ma è anche qualcosa di completamente diverso dal passato.
Lo si vede alla fine della seconda puntata - Sky Cinema 1, collocazione perfetta, ha deciso di offrire al suo pubblico due episodi a settimana nella prima serata di domenica - quando un cuoco dice ai protagonisti che «a casa sono degli eroi». Non se
l’aspettano, sono convinti di essere stati dimenticati dal loro paese. Ma non c’è entusiasmo nel loro stupore, i loro occhi sono già segnati e profondi (anzi, sprofondati) come quelli che il padre di Joseph Mazzello teme di vedere nel figlio che non vuol far andare al fronte. Mazzello, bravissimo, è uno dei tre grandi filoni narrativi della serie, insieme a James Badge Dale e Joe Seda. Interpretano Eugene B. Sledge, Robert Leckie e l’italo-americano John Basilone, li vediamo insieme nella cena del primo episodio. Sono soldati realmente vissuti, e della loro esperienza hanno dato testimonianza nei libri di memorie With the old breed e Helmet of my pillow i primi due, nel racconto "propagandistico" per cui fu rimpatriato anticipatamente, il terzo.
The Pacific è un terribile e potentissimo affresco che unisce scene di guerra e momenti introspettivi, atti di eroismo e disturbi intestinali tragicomici, e si rimane in apnea mentre vediamo dipanarsi, da Guadalcanal fino ad Okinawa, questa
guerra di sottoufficiali, di carne da macello utile solo a costituire un tappeto di cadaveri verso la libertà. Si combatteva settant’anni fa, tra il ’41 e il ’42, Pearl Harbour aveva fatto solcare agli isolazionisti statunitensi entrambi gli oceani. Ma la guerra del Pacifico il suo racconto, Eastwood a parte, non l’ha avuto. Spielberg e la sua squadra, anzi esercito, vista l’enormità del cast artistico e tecnico, hanno scelto un’impostazione rigorosa e implacabile, anche nel volere quei protagonisti sconosciuti e poco riconoscibili. Un divo in questa guerra tra poveri, avrebbe stonato. Quei marines non avevano storie eccezionali, erano ragazzi normali con le mostrine sulle maniche, la manodopera (abbastanza) specializzata ma maltrattata dagli strateghi, dai politici e dai grandi ufficiali che sul loro sacrificio costruivano la retorica e la psicologia collettiva della guerra. Noi qui vediamo quello che non si leggeva allora sui giornali. E non ci piace per niente.
Succedeva decenni
fa, sembra oggi.