Bersani alza il tono contro il governo
 







Stefano Bocconetti




On. Pierluigi Bersani

Fiera di Roma, le notizie che vengono dall’assemblea congressuale del piddì sono due. La prima, quella che sui giornali conquisterà più spazio: il partito democratico c’è, esiste ed è più unito di prima. E tutto fa capire che d’ora in poi voglia fare opposizione. La seconda, contraddice la prima: nessuno sa fino a quando durerà.
In pillole questa è la stata la due giorni romana dei democratici. Che hanno riunito nei capannoni dell’Expo quasi mille delegati per approvare i primi punti di un «programma di alternativa» (così l’hanno definito). Che ora passerà al vaglio delle sezioni e poi sarà varato definitivamente alla fine dell’anno.
Poche le novità dal punto di vista dei contenuti. Poche, ma comunque quelle poche di una certa rilevanza: l’assemblea, per dirne una, ha definitivamente bocciato la "teoria Ichino". La tesi, sostenuta dal professore ma anche da molti esponenti della destra del partito, secondo cui la riunificazione del mercato del
lavoro fra dipendenti a tempo indeterminato e precari sarebbe dovuta avvenire annullando i diritti contrattuali. Ovviamente col progetto di ricostruirli ma intanto - per l’oggi - ci sarebbe stato l’azzeramento dei diritti. Bene, questa tesi è definitivamente scomparsa dai progetti del piddì.
Anche altri punti del mini-programma approvato hanno qualche interesse. Ma quel che più conta è il clima che si è respirato in questi due giorni. Tanto più nella giornata conclusiva, quella di ieri. Dalla replica di Bersani a D’Alema, ma anche dagli esponenti della minoranza, da Franceschini a Fioroni (che ha annunciato che non ha alcuna intenzione di andarsene con Casini), passando per Fassino e Rosi Bindi, tutti, si diceva, hanno salutato la «ritrovata unità».
Veltroni - che con l’intervista dell’altro giorno sul "Fatto" ha fatto capire di voler tornare ad occupare un posto di primo piano nella vita politica - non s’è accodato al coro. Ma solo perché ieri non c’era alla Fiera di Roma
(assente - assicurano i suoi - perché da tempo aveva un altro impegno). E comunque, subito dopo la relazione di Bersani, venerdì, anche lui aveva avuto parole di apprezzamento per il segretario. Non entusiastiche ma di apprezzamento: «È un buon inizio».
Un clima unitario, allora. Al punto che Bersani si spingerà fino a dire che queste due giornate sono il vero inizio della sua segreteria. Al punto che nelle conclusioni dirà che c’è stato - «finalmente» - quel «cambio di passo», che un po’ tutti avevano chiesto al piddì dopo la sconfitta elettorale.
Ma tutto questo cosa significa? Per ora questa nuova filosofia s’è tradotta solo nella scelta di «radicalizzare» un po’ il linguaggio. Nella scelta di usare aggettivi e definizioni "in stile opposizione". Al punto che, sempre Bersani, si è fatto prendere la mano e quando è arrivato a parlare della scuola, se n’è uscito con un’espressione inusuale per lui, solitamente così pacato. La scuola - ha detto - è allo sfascio, l’istituzione si
regge davvero solo grazie alla passione e all’impegno di migliaia di insegnanti; «E allora la Gelmini la smetta di rompere i coglioni....».
La platea, un po’ sorpresa, l’ha comunque applaudito.
In ogni caso, a parte diverse frasi ad effetto - che comunque così nette non erano state mai ascoltate in un’assemblea dei democratici - Bersani non ha sciolto tutti i nodi. Ed anche sull’eventualità di un «governo d’emergenza» nel caso in cui la destra deflagrasse - ipotesi a cui comunque nessuno qui sembra credere davvero - il segretario ha continuato a prendere tempo. Esattamente come nel discorso di apertura, anche nelle conclusioni s’è limitato a dire che «un partito serio analizza i "fatti". E per ora non c’è nessun fatto che autorizzi ad ipotizzare nuove maggioranze». Se ci saranno, naturalmente, il piddì sarà «responsabile».
Tanto è bastato però perché Franceschini - che appunto aveva animato i giorni precedenti al congresso proponendo un "governo d’emergenza" - incassi: «Il
segretario ci ha spiegato correttamente che se ci fosse uno strappo noi siamo in grado di affrontare l’emergenza». Da qui, il capogruppo alla Camera è potuto partire per accodarsi al clima di nuova unità che ha respirato l’assemblea.
Clima che neanche D’Alema ha provato a rompere. Anche se, come sempre, dal palco s’è tolto qualche «sassolino». Lo ha fatto dichiarandosi felice che tutti, adesso, concordino nel sostenere che ci vuole maggiore coesione. Salvo aggiungere che Bersani - il suo candidato - su questo obiettivo ha «lavorato molto più di altri».
Finisce così, la due giorni di Roma. Con un voto sui documenti. Che in un primo momento la minoranza voleva evitare. Alla fine, poi ha accettato l’idea dell’alzata di mano: anche perché su alcuni temi dirompenti - la riforma istituzionale e la riforma elettorale, solo per fare degli esempi - il partito ancora non ha un’opzione precisa. Così si andrà alla consultazione della «base» con un testo che ipotizza un sistema maggioritario
uninominale per la Camera e uno proporzionale per il Senato delle Regioni. Documento integrato, però, da qualche altra riga - aggiunta ieri - dove si spiega che anche il sistema francese di dopo turno non è poi così male. Si vedrà più in là, come sempre. Oggi conta solo la «ritrovata unità».
Si arriva così alla seconda notizia. Meglio: alla seconda domanda. Fino a quando durerà? Perché a nessuno è sfuggito l’intervento di Giorgio Tonini, ex braccio destro di Veltroni, suo vero "alter ego". E’ salito sul palco, in qualche modo uniformandosi al clima del "volemose bene", ma poi, al dunque, ha sostenuto: «Oggi non è il momento della corsa per la leadership. Quando verrà il momento saranno i fatti e la politica a dirci quello che dobbiamo fare».
Parole chiare che confermano tutto: oggi si fa opposizione, tutti insieme. Più in là, quando si comincerà a sentire il rumore delle elezioni, Veltroni farà il suo ritorno. Pronto a contendersi la leadership, la candidatura. E a quel punto
programmi e alternativa torneranno in soffitta.