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TSO per le donne dopo il parto? Il problema è sociale, non psichiatrico |
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Tiziana Valpiana
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La proposta del TSO per le donne che, nel dopo parto, potrebbero divenire potenzialmente pericolose per l’incolumità del nuovo nato non poteva che nascere da (contorte) menti ‘maschili’. Ogni donna, ogni mamma, sa che dopo la nascita il suo, nella stragrande maggioranza dei casi, non è un problema psicologico o psichiatrico, ma sociale. Sente la difficoltà di conciliare il nuovo ruolo con tutti gli altri che le si lasciano appiccicati addosso e che aumentano stress, ansie, sentimenti depressivi, fatica fisica ed emotiva. Ma questa proposta sciagurata non è nuova: ricordo ancora lo sbigottimento dell’allora Ministro della Sanità Sirchia quando in Parlamento alla sua idea di introdurre lo ‘psichiatra di prossimità’ per prevenire le ‘madri assassine’, avevo ribattuto con una battuta che, con tutta probabilità, sarebbe stata molto più efficace (e molto meno costosa) l’introduzione di una ‘colf di prossimità’. Ai nostri politici, ai nostri tecnici sfugge quello che era evidente a tutte le generazioni precedenti e alla saggezza popolare riassunta in un’efficacissima frase di Gandhi “Per allevare un bambino ci vuole un villaggio”. Nella nostra società è ‘sparito’ quel villaggio di relazioni che può consentire a una donna di divenire madre, mancano le rete familiari e parentali, le relazioni di vicinato e di amicizia, mancano i luoghi di trasmissione delle competenze, di incontro per la relazione tra donne e con i nuovi nati. Dopo lo ‘stato interessante’, per familiari, amici, partner, ginecologo, ostetrica, colleghi, arriva il momento dell’abbandono. Madre e neonato spesso passano tutta la giornata da soli, in appartamenti sempre più piccoli, lasciati al mattino e riabitati solo alla sera da chi rientra troppo stanco per poter fare qualunque cosa, anche solo comprendere ritmi e spossatezza di un impegno che richiede 24 ore di piena attenzione al giorno per 7 giorni la settimana, senza alcun supporto. Che in questa situazione si verifichino crisi di adattamento, più o meno serie, non può certo meravigliare. Quello che meraviglia è che poco o nulla si faccia per prevenire e curare una situazione che può rovinare i primi mesi di vita con un bambino, che rende infelici e che certo ha ripercussioni anche pesanti sulle relazioni e sulle vite future della donna, del bambino, della coppia, della società. Oggi in Italia non esiste alcun riconoscimento del periodo ‘straordinario’ che la donna vive nel dopo parto, anzi è continuamente misconosciuta la necessità di vivere un periodo ‘straordinario’. Si presume che la vita riprenda come se nulla fosse accaduto dopo un evento così denso dal punto di vista fisico, psichico, emozionale, spirituale e sociale e che la donna si senta immediatamente all’altezza dei nuovi compiti (madre, nutrice) continuando senza problemi tutti i precedenti (moglie, madre, casalinga, amante, cuoca, lavandaia e, a detta della ministra Gelmini, lavoratrice per non essere una ‘privilegiata’). Al di fuori dell’occidente, dove il post-partum è ancora celebrato dalla comunità, i riti incanalano la paura e rinsaldano la donna nel nuovo ruolo, mentre noi abbiamo abbandonato quelle tradizioni e quei riti che erano indirizzati a coltivare la vita, non solo quella dello spirito ma anche la vita materiale (alcune ‘proibizioni’, come, per esempio, il non tenere le mani in acqua, sicuramente rispondevano anche a bisogni di tutela della salute ma significavano anche la vicinanza della comunità, visto che sicuramente qualcun’altra al suo posto si occupava del bucato, così come altre preparavano il brodo...). Oggi, sole, davanti a un piccolo essere totalmente dipendente che richiede cure continue e davanti a un cambiamento per cui non sono attrezzate, molte donne divengono fragili. La nuova madre ha necessità di essere curata per poter curare, accudita per poter accudire, rassicurata per poter dare un’amorevole attenzione al bambino: le donne (con gruppi auto-gestititi, richieste di incontri nel post-parto, gruppi di discussione virtuali, community) chiedono di colmare questo vuoto, a volte lo ‘gridano’ con comportamenti drammatici, ma le istituzioni latitano. In Italia esistono solo esperienze sporadiche, il più delle volte promosse o gestite da associazioni di donne. Il Melograno, centri informazione maternità e nascita, presente in varie città in Italia, così come altre associazioni, hanno sperimentato concretamente come la più efficace forma di prevenzione della depressione post-partum stia nel costituire gruppi di appoggio e di auto e mutuo aiuto con altre madri e servizi di supporto nel dopo parto (incontri, reperibilità telefonica, spazi di aggregazione, spazi per il lavoro corporeo, servizi di supporto all’allattamento –c’è una sicura relazione in tutto il mondo tra declino dell’allattamento e aumento della frequenza di depressione, anche se non è provato il contrario). E, soprattutto, visite domiciliari, per poter contare non sullo sporadico e non garantito aiuto dei familiari, ma sulla sicurezza di un supporto professionale disponibile e anche per rilevare precocemente eventuali disfunzioni nell’ambiente di vita. In altri Paesi occidentali è il servizio sanitario pubblico ad assicurare un’“assistente professionale di maternità” a domicilio: un angelo che gestisce le visite, fa i test, risponde alle domande, supporta l’allattamento, ma anche (e solo chi ha partorito sa quanto questo sia prezioso nei primi giorni) si prende cura della biancheria, della cucina, della spesa, dei bambini più grandi, consente un sonno ristoratore… Il Melograno di Roma, grazie alla legge n. 285 del 1997, ha gestito dal 1999 un progetto di sostegno domiciliare nel Comune (ora purtroppo interrotto dalla nuova giunta) con le mamme in situazioni a rischio (grave situazione socio-economica, immigrazione, madri sole, patologia psicologica o psichiatrica, tossicodipendenza, minore età, prematurità) finalizzato alla prevenzione del disagio, comprese le situazioni di abuso e maltrattamento. Attraverso incontri settimanale nel primo anno di vita di 2 ore con un’operatrice, l’assistenza domiciliare ha stimolato risorse, facilitato la relazione con il bambino, sostenendo la neomadre senza mai sostituirsi nell’affrontare le sue ansie e le sue difficoltà. Questo intervento, ponendo le basi per un attaccamento sicuro, accrescendo la fiducia in se stesse, permettendo di non “perdersi” di fronte alle tante difficoltà e soprattutto di riuscire a osservare e capire meglio il proprio bambino e a sentirsi più competenti, ha portato molti benefici, soprattutto per le poche donne depresse e ha prevenuto tanti potenziali problemi. |
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