LIBERTA’ DELL’INIZIATIVA ECONOMICA PRIVATA E SUOI LIMITI COSTITUZIONALI
 







di Emilio Benvenuto




E’ stato ripetutamente e solennemente affermato e promesso che qualsivoglia progetto di revisione  della Costituzione della Repubblica Italiana, entrata un vigore il 1° gennaio 1948 (XVII delle disposizioni transitorie e finali), ossia soltanto 62 anni  fa e ancora oggi non del tutto attuata, non dovesse riferirsi in alcun modo ai p r i n c i p i    f o n d a m e n t a l i da essa dettati (artt. 1-12) e alla Parte I sui d i r i t t i   e   d o v e r i   d e i   c i t t a d i n i (artt. 13-54), che regola i rapporti civili (artt. 13-28), etico-sociali (artt. 29-34),  economici (artt. 35-47) e politici (artt. 48-54).  Ci si attendeva quindi che ogni richiesta di riforma costituzionale, peraltro non da tutti auspicata, si riferisse a disposizioni della Parte II sull’o r d i n a m e n t o d e l l a   R e p u b b l i c a (artt. 55-139), ossia a quelle sul Parlamento (artt. 55-82), sulla Presidenza della Repubblica (artt. 83-91), sul  Governo  (artt. 92-100), sulla Magistratura (artt. 101-113), sulle Regioni e gli Enti locali (artt. 114-133), sulle garanzie costituzionali (artt.134-139) e ad alcune superstiti di quelle transitorie e finali (I-XVIII).
Ma par vero il detto del volgo che “l’appetito viene mangiando” e la volgarità di alcuni mira a rimangiarsi pure quelle disposizioni che essi stessi avevano proclamato o riconosciuto intangibili, in particolare quelle che si riferiscono a rapporti economici. Si è così, proprio in nome di una ormai incontrollabile  iniziativa privata, che si è cominciato a parlare di revisione  dell’art. 41, oltre ogni dire cara ai nostri “cavalieri d’industria”.
L’art. 41 detta infatti che “l’iniziativa economica privata è libera” (c. 1°), ma
aggiunge:
•che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (c. 2°);
•che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica o privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (c. 3°).
Dizioni chiarissime queste: “p r o g r a m m i”, “c o n t r o l l i” e “f i n i   s o c i a l i”;  non salvaguardia di egoistici interessi privati in contrasto con quello pubblico, in nome di una pretesa “libertà dell’impresa”.
Si è detto che le formule votate dall’Assemblea Costituente lasciavano aperte tutte le possibilità, dal liberalismo economico classico fino al collettivismo di tipo sovietico, e che vi era una evidente contraddizione tra la categorica affermazione del primo comma e le vaste possibilità di limitazioni contenute nei due commi successivi, che oggi si vorrebbero eliminare con la riduzione dei
controlli da  “ex tunc” a posteriori.
Ma è evidente che ai difensori della libertà d’impresa sfugge che ai fini della individuazione e del perseguimento del bene comune necessita che ogni Stato distingua tra una sfera di attività privata e una sfera di attività pubblica. La prima è quella dell’autonomia privata, circoscritta e protetta dall’ordinamento giuridico e può rappresentarsi come l’ambito del giuridicamente lecito.
Orbene, il campo della economia è quello in cui maggiormente si fa sentire, oggi, il problema delicato  di conciliare il più armonicamente possibile la sfera dell’attività privata e quella dell’attività pubblica. Le due soluzioni estreme in questo campo, tutta attività privata oppure l’opposto, tutta attività pubblica,  sarebbero, in un certo senso e sotto un certo profilo, le più semplici da attuare; ma risulterebbero, nel quadro complessivo della vita della società, come storici eventi hanno già dimostrato, cariche di  gravi conseguenze
negative.
L’attuazione di un totale liberalismo individualistico potenzierebbe, forse,  l’iniziativa privata, con i risultati di un a t t i v i s m o responsabile, stimolato dal miraggio del successo e del guadagno, ma prescinderebbe dalle esigenze della solidarietà sociale, che costituisce una dimensione ormai fortunatamente irrinunciabile della coscienza contemporanea: vantaggi, quindi, sotto un certo profilo, ma sacrifici inaccettabili, sotto altro profilo.
Una attuazione di s t a t a l i s m o totalitario porterebbe alcuni risultati positivi nell’ambito della produzione e, in genere, dell’economia, tutto coordinando unitariamente, in termini di pianificazione per costrizione, ai fini del conseguimento del migliore risultato. 
Chiamiamo qui p i a n i f i c a z i o n e   p e r   c o s t r i z i o n e  quella in cui lo Stato predispone un unico grande p i a n o da
attuare nel campo della economia, costringendo tutti i membri della società, se necessario con la forza, ad assumere gli specifici compiti di produzione e di lavoro loro assegnati.
Ai  risultati  positivi,  sotto  un certo  profilo,  si  accompagnerebbe  qui un costo troppo gravoso  che  gli  uomini  liberi  sentono  di  non poter  affrontare:  il  s a c r i f i c i o   d e l l a   l i b e r t à. Si  tratterebbe infatti di rinunciare in gran parte alla propria autonomia e alla propria indipendenza personale, perché il singolo individuo verrebbe trasformato in una rotellina dell’unico ingranaggio produttivo dello Stato totalitario.
D’altra parte, il grande p i a n o   u n i t a r i o   p e r   c o s t r i z i o n e, anche se tentato, può fallire miseramente – è
spesso è fallito, nella concreta esperienza della storia – perché deve coordinare una molteplicità di vicende, naturali e umane, il cui andamento è difficilmente  valutabile  con  esattezza,  in  termini  di  previsione:   in  particolare,  la  voluta r i d u z i o n e dell’individuo a  r o t e l l i n a   d i   i n g r a n a g g i o urta costantemente contro l’insopprimibile esigenza di libertà e di individualità che sempre e dovunque riemerge dal profondo della personalità umana.
La Costituzione italiana ha voluto seguire una strada intermedia, la più difficile, certo, tecnicamente, ma che tende a conciliare con il rispetto della libertà della persona umana le esigenze imprescindibili della solidarietà sociale.. Già un primo annunzio di prospettiva programmatica in questo senso, in termini generali, troviamo nel secondo
comma dell’art. 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Un secondo annunzio, più preciso, è nel successivo art. 4, ove si sottolinea il d i r i t t o   a l   l a v o r o, subito aggiungendosi che la Repubblica “promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”.
Il tema è stato ripreso e sviluppato nella trattazione specifica dei rapporti economici (artt. 35-47) e in modo tale che l’eliminazione o l’incrinatura di uno solo di questi tasselli minaccia il crollo di tutto  l’impianto costituzionale.
Dopo avere affermato, in apertura, che “l’iniziativa economica privata è libera”, l’art. 41 aggiunge che tale iniziativa “non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
E’ una serie di limiti, dunque, che non consentono alla libertà di iniziativa economica di scatenarsi egoisticamente, senza tenere presenti le esigenze della socialità. Sin qui l’art. 41 si muove, in termini di l i b e r i s m o, sia pure controllato dallo Stato negli eventuali eccessi che potrebbero essere suggeriti al singolo imprenditore da uno smodato desiderio di guadagno.
E’  il terzo comma dell’art. 41 che prevede, da parte dello Stato, l’opportunità di programmi e di controlli in materia di attività economica: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
I Costituenti hanno voluto espressamente evitare di ricorrere al termine p i a n o, perché l’espressione era caratteristica dello
s t a t a l i s m o totalitario, naturalmente portato – come   abbiamo  ricordato  –   a   risolvere   i  problemi  economici  in  termini  di  p i a n i   p e r   c o s t r i z i o n e. Hanno invece parlato di p ro g r a m m i e di c o n t r o l l i tendenti a indiziare  e  a  coordinare,  a  fini  sociali,  l’attività  economica  pubblica  e  quella  privata.  E’  quanto   si  suole  anche  indicare,  nell’uso  corrente,  con  la  espressione  p i a n o   p e r   i n c e n t i v o, volendosi alludere  a un  p r o g r a m m a economico che non costringa il singolo  entro  un  disegno  tassativo  da  attuare,  ma p r e d i s p o n g a   d e t e r m i n a t i   b i n a r i, movendosi lungo i quali, l’azione economica individuale – giuridicamente libera – risulti facilitata e aiutata dallo sforzo economico di tutta la collettività. E’ in questo significato,   di  coordinamento  e  di  incoraggiamento,  che  per  vari anni fu in atto in Italia il  p r o g r a m m a  o  s c h e m a   V a n o n i  (detto  anche  da  alcuni,  ma  impropriamente  p i a n o)  per  lo  sviluppo  della  occupazione e del reddito nel decennio dal 1955 al 1964. Fu in  questa   prospettiva   che   si   svolse,   per  oltre   un   decennio,  l’intensa    attività   della  C a s s a   d e l   M e z z o g i o r n o, a torto misconosciuta, ancora più a torto vituperata, che concentrò un poderoso sforzo economico di tutta la società italiana a vantaggio delle regioni meridionali, dal 1961 prima spogliate, poi trascurate o dimenticate e oggi ricadute nell’oblio. Fu ancora sotto il profilo di un piano per incentivo – per citare un altro esempio - che si parlò, sempre negli anni ’60, di un  p i a n o   v e r d e p  e r   l ‘ a g r i c o l t u r a, purtroppo mai  attuato  per la becera opposizione di ben noti ceti.
Impostato con l’art. 41 il problema di fondo in materia economica, escludendosi le soluzioni estreme e antitetiche del l i b e r a l i s m o e dello s t a t a l i s m o, seguendosi invece una soluzione mediana che potrebbe chiamarsi
di s o l i d a r i e t à, la Costituzione della Repubblica Italiana ha dettato princìpi fondamentali nel campo dell’economia.
La scelta fra i due estremi che si vorrebbe imporre con una radicale riforma di questo articolo e l’abolizione d’ogni controllo sulle condizioni iniziali e i progetti d’ogni attività imprenditoriale privata mirano a porre in non cale l’ordinamento socio-economico del nostro Paese e affermare un primato del ceto imprenditoriale sulle altre classi sociali e persino sullo stesso Stato, di cui mira a divenire “padrone”.
Che dire, poi, dei riflessi che una siffatta scelta avrebbe sull’urbanistica  (art.117,  c. 1°, al. 8^) e sulla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e  storico (art. 9, c. 2°)?
Dalla natura e dal lavoro delle generazioni passate abbiamo avuto in consegna una situazione paesistica unanimemente riconosciuta u n i c a   a l   m o n d
o. Il secondo comma dell’art. 9 della nostra Costruzione precisa che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. E’ uno del p r i n c i p i   f o n d a m e n t a l i enunciati da quella Carta, che dovrebbe essere un testo sacro per ogni Italiano degno di tal nome.
Si   avverte   qui,   ancor   più   che   altre   volte,  che   la  Costituzione  usa  la  parola  R e p u b b l i c a in senso comprensivo così dello Stato che delle Regioni. Avrebbe usato il termine S t a t o, se avesse nutrito intento discriminatorio delle Regioni. Pertanto alle provvidenze di questa norma debbono soprintendere tanto lo Stato quanto le Regioni.
In questa prospettiva, di consapevole responsabilità del presente, come anello di
transizione tra il passato e l’avvenire del popolo italiano, questa norma sottolinea – e non soltanto programmaticcamente – il dovere di Stato e Regioni della tutela del patrimimonio storico e artistico della Nazione. E’, con questa norma, che per la prima volta, la Costituzione si rifà al concetto di N a z i o n e. E’ mamfesto – con particolare riferimento ai valori paesistici, storici e artistici – il richiamo alla continuità con cui il popolo italiano ha svolto la sua storia e intende continuare a svolgerla, come fatto unitario dello spirito incentrato in un determinato ambiente territoriale.
Ebbene, la chiesta riforma dell’art. 41 – ci diceva un architetto nostro amico ieri sera – minerebbe anche la susciplina urbanistica e la tutela paesistica, storica e artistica, in quanto la libertà d’azione concessa alle libera attività imprenditoriale anche in questi campi, vanificherebbe la potestà di Stato e Regioni e impedirebbe ln pratica  l’esercizio dei
loro poteri e doveri.
Se già oggi imprese, pubbliche o private che siano, ardiscono costruire autostrade e superstrade passando su siti archeologici e antiche necropoli, o  sconvolgere  insediamenti neolotici tra i più noti d’Europa, o abbattere uno storico edificio per costruirvi ineleganti caseggiati moderni, che guastano il disegno urbanistico delle nostre città (e tutto ciò si è già verificato in Capitanata)  o  ancora impunemente demolire un superstite ponte romano sul Cervaro, restaurato dai Borboni, nell’agro della nostra città in questi ultimi giorni, a cosa mai valgono eventuali posteriori controlli, se non a una possibile comminazione di sanzioni amministrative e, da parte della Magistratura, di pene? Ne soffrirà forse – se non ne riderà invece, come è tipico d’oggi - qualche imprenditore, ma  varranno tali sanzioni amministrative e pene  a restituirci nella loro integrità quei siti archeologici, quelle necropoli, quegli insediamenti
neolitici, quegli storici edifici, quel ponte romano, scomparsi per la crassa ignoranza e l’ingordigia di privati?  Che dire o fare di quel “palazzinaro” di Foggia che ardì demolire in Corso Cairoli uno storico edificio, ma ne salvò l’epigrafe che vi attestava l’avvenuto soggiorno di Benedetto Cairoli, ricollocandola sulla facciata del nuovo da lui eretto al posto del precedente, destinato ad attività commerciali, talché oggi un ignaro passante potrebbe ritenere che quel Benedetto Cairoli non fosse altro che un commerciante di tessuti, poiché il suo nome oggi spicca fra stoffe?