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Fermare le mine vaganti del capitalismo selvaggio |
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La totale liberalizzazione dei flussi internazionali dei capitali è una delle concause della crisi. I paesi che hanno mantenuto forme di controllo e vigilanza sui capitali sono riusciti a proteggersi dalla tempesta. Ma i governi hanno a disposizione molti strumenti per prevenire nuovi rischi mondiali: ecco come disinnescare la mina dei capitali vaganti L’attuale crisi finanziaria ha riportato la discussione su come controllare i capitali e, più in generale, sulle tecniche di gestione dei flussi di capitali, cioè la combinazione di misure di controllo sui cambi, sui movimenti di capitale e di regole prudenziali. Era ora. Se ci fossero stati controlli appropriati sugli scambi internazionali dei prodotti finanziari pericolosi e sui flussi speculativi di capitali stranieri, molti più paesi sarebbero stati al riparo dalle ricadute finanziarie della crisi, così come lo sono state India e Cina, che sono solite applicare queste politiche. In quel caso, l’Islanda non si sarebbe liquefatta e l’Irlanda non sarebbe caduta in un baratro. Non è la prima volta che questa storia si ripete. Il laissez-faire in materia di flussi internazionali di capitale ha contribuito al collasso degli anni trenta. All’indomani della grande depressione e della seconda guerra mondiale, la maggior parte dei governi - con il riluttante benestare del neonato Fondo monetario internazionale (Fmi) - ha adottato controlli governativi sui cambi e sui movimenti di capitali per gestire i flussi internazionali. Per almeno tre decenni dopo la seconda guerra mondiale, i controlli sui movimenti internazionali di capitale sono diventati prassi normale per la maggior parte dei paesi del mondo e la loro esistenza ha accompagnato e sostenuto la cosiddetta "età dell’oro" della crescita economica del dopoguerra. Successivamente, sotto la pressione dei crescenti interessi finanziari, i governi hanno iniziato ad allentare le restrizioni sui flussi internazionali di capitali e di moneta. Dopo un po’, i nodi sono venuti al pettine. Nel 1997 è esplosa la "crisi asiatica", facendo strage di molti paesi asiatici rampanti. Questo disastro è stato seguito a ruota dal collasso finanziario in Russia. E poi da una serie di altre crisi, fino al culmine del 2007-2009. Oggi, nel pieno delle turbolenze, molti paesi cercano di mettere in campo un’ampia gamma di tecniche di controllo dei capitali in modo da proteggere le proprie economie da quelle forze finanziarie che hanno messo il mondo in ginocchio. L’Fmi, smentendo la prassi dei passati decenni, sta accettando, sia pure a malincuore, alcune di queste novità (Tobin tax,controllo dei flussi finanziari, limitazioni dei prestiti alle società off-shore, litazione della proprietà estera dei titoli,requisti minimi di riserve bancarie rispetto ai depositi, protezione della base imponibile per evitare le fughe di capitali tanto per citarne alcune): quando la realtà bussa alla porta, perfino il Fondo monetario deve rispondere. Com’è evidente, esistono molti obiettivi perseguibili dai governi grazie a queste politiche e altrettanti strumenti per raggiungerli. Esistono diverse ricerche sulle motivazioni che portano i governi all’adozione di questi strumenti e sui loro costi e benefici. Si può trarre qualche lezione da tali studi. In primo luogo, e in linea generale, le misure di controllo dei capitali possono contribuire alla stabilità finanziaria e valutaria, all’autonomia delle politiche macro e microeconomiche, alla stabilità degli investimenti di lungo termine e dei conti pubblici. Non v’è dubbio che, alla realizzazione di tali misure, potrebbero associarsi anche dei costi, come ad esempio la creazione di aree di corruzione. Ma una solida struttura di controlli minimizzerebbe tali costi. In secondo luogo, affinché questo tipo di misure possano attuarsi con successo e per un periodo di tempo significativo, è necessario che i parametri fondamentali siano in ordine e che ci sia un ambiente politico adatto. Tra i primi, un rapporto debito/Pil contenuto, un moderato tasso d’inflazione, un bilancio pubblico sostenibile e politiche di cambio coerenti. Il secondo requisito implica un buon funzionamento del settore pubblico, tale da permettere la realizzazione di politiche coerenti (capacità amministrativa) e governi sufficientemente autonomi da interessi politici ristretti e capaci di mantenere un certo controllo sul settore finanziario (capacità politica). Terzo, è importante notare che la relazione causale funziona in entrambi i sensi: l’esistenza di quei requisiti di fondo permette di attuare i controlli sui capitali, e viceversa. Quegli elementi sono fondamentali all’efficacia nella gestione dei capitali nel lungo periodo proprio perché riducono gli ostacoli ai controlli stessi, alimentando quindi le loro potenzialità di successo. D’altronde, gli stessi strumenti di controllo sui capitali migliorano le condizioni dell’economia, evitando il verificarsi di strategie finanziarie rischiose, livelli di debito eccessivi, squilibri sui mercati dei cambi e investimenti speculativi. Quarto punto, l’aspetto dinamico delle politiche di gestione dei capitali è forse il tratto più importante. "Dinamico", nel senso che i controlli possono essere attivati e poi sospesi oppure ristretti e quindi allentati, a seconda delle esigenze. I politici responsabili devono essere abili nella scelta tra la varietà di strumenti di controllo esistenti e devono saper modificare quella scelta quando le circostanze lo richiedono. Quinto, in genere le misure di controllo sui capitali funzionano meglio quando risultano coerenti rispetto al complesso degli obiettivi di politica economica e quando sono parte integrante della strategia economica nazionale. Tale prospettiva non richiede un diffuso controllo dello Stato sull’attività economica. Singapore è un buon esempio di un’economia largamente liberalizzata, ma dove le tecniche di controllo dei flussi finanziari sono parte integrante della visione della politica economica e dello sviluppo del paese. Sesto e ultimo punto, non esiste un’unica ricetta nelle politiche di controllo dei capitali. Le tecniche devono, al contrario, essere sviluppate attorno ai bisogni, agli obiettivi e alle contingenze particolari di ciascun paese. Fortunatamente, esiste un’ampia gamma di strumenti che possono essere utilizzati. Naturalmente, i controlli sui flussi di capitale non rappresentano la panacea per i problemi delle nostre economie e non potranno funzionare bene se non sono integrati in un quadro complessivo di gestione dell’economia. Tuttavia, per quei paesi che navigano nelle acque turbolente della finanza internazionale, quei controlli rappresentano un utile - e spesso necessario - strumento nella cassetta degli attrezzi della politica economica. Gerald Epstein-professore di economia, è tra i fondatori e co-direttore del Political Economy Research Institute (Peri) all’università del Massachussetts, ad Amherst (Stati uniti). Si occupa di finanza nazionale e internazionale, politica monetaria e regolamentazione finanziaria. |
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