L.CAVANI, UN CINEMA AL DI LÀ DELLE IDEOLOGIE
 







di Antonio NAPOLITANO




Liliana Cavani (Carpi,Modena, 1935) è stata, in Italia, una delle prime donne ad affermarsi come regista.
Dopo la laurea in lettere a Bologna si è diplomata al Centro Sperimentale di Roma e tra il 1961 e il 1965 ha lavorato a vari documentari per la RAI TV .
Per lo stesso ente ha poi realizzato un "Francesco d’Assisi" (1966) del tutto alieno dai convenzionali toni agiografici.
Vengono, così, investigati anche gli anni della sua avventurosa giovinezza. Lo stile risente della drastica lezione di Rossellini, anche nell’attenzione al paesaggio umbro in cui, non per caso, nasce  nel ’200 quel movimento spirituale.
Nel ’68,  "Galileo" rappresenta la ricostruzione del travagliato iter dello scienziato alla ricerca delle leggi del cosmo oltre ogni dottrina e pregiudizio teorico o confessionale.
L’attore C.Cusack si immerge pienamente nel difficile ruolo e la regista articola in modo convincente le gravi questioni attinenti al
caso.
"I cannibali" (1969) è, invece, una "Antigone" portata ai nostri giorni. Nella giovane milanese che vuol dare sepoltura al fratello morto in una rivolta studentesca sono mantenuti parecchi tratti della eroina sofoclea.
Non sempre il dramma è risolto sul piano stilistico dato che spesso risalta "il rifiuto testardo di ogni accenno dialogico" (C.Tiso, nel "Castoro" (1975) dedicato alla Cavani).
Sul problema della malattia mentale si concentrerà, nel 1971, "L’ospite". Lucia Bosè è la giovane Anna, appena dimessa dalla clinica ma sempre alla ricerca di una impossibile felicità.
Quasi in parallelo alle tesi di Basaglia, si tende a escludere la base patologica dei disturbi in un campo tanto complesso. Ma genuino e credibile è il clima di indifferenza da parte dei parenti e curanti della inferma.
"Milarepa" (1974) è un film girato su commissione e della TV ma in modo, al solito, indipendente da qualunque suggestione esterna.
L’interesse estetico è qui rivolto al
misticismo orientale, ma non al "new age" suo sosia arbitrario.
Il santone tibetano è ritratto quale esponente di un modo di vita assolutamente lontano da quello vigente nei nostri paesi sempre più avidi di un edonismo sfrenato (quando non rischioso o temerario).
Ardua è, perciò, la ricerca dello studente Leo di una religiosità onnipervasiva. Essa, talvolta, allude all’utopica "immaginazione al potere" del "joli mai" tanto diversa data la sua estroversione, e la sua terrena ambizione.
Maggiormente aderente alla realtà degli avvenimenti storici, è "Il portiere di notte" (1974) che vede a confronto Charlotte Rampling e Dirk Bogarde, tra i quali è intercorsa una speciale "sindrome di Stoccolma". Lei è una ebrea chiusa nel lager, quasi prigioniera personale di Max, ufficiale delle S.S. Il loro rapporto sadomaso è descritto con icastica efficacia e senza un solo velo di ipocrisia o di pruderie.
Lividi colori tinteggiano gli anfratti della vicenda, vista spesso con virulenti
flashback.
Nel 1977, "Al di là del bene e del male" è la narrazione del maldestro "ménage à trois" tra Lou Salome, Nietszche e Paul Rée.
Appoggiandosi talvolta più ad ipotesi che a documenti si fanno allusioni a bizzarre estremizzazioni dell’Eros.
La Sanda e E.Josephson riescono a dominare loro problematici ruoli e la Cavani a smussare gli spigoli più irti  senza addobbarli di gradevole travestimenti.
Una virata di molti gradi verso tutt’altro ambiente sarà "La pelle" (1981), dal ben noto libro di C.Malaparte. 
Il film ripercorre il drammatico 1944 nella Napoli semidistrutta dalla guerra.
Sono anche i giorni della eruzione del Vesuvio e  dei bombardamenti tedeschi che aggravano il disagio materiale e morale della popolazione.
La regista non tralascia qualche episodio "surreale" quale quello del pesce-sirena presentato come il corpicciolo lesso di una neonata e la "figliata" dei femminielli.
Ma più frequenti sono i momenti di accorata pietà
rispetto a quelli di dilatato voyeurismo. È da notare che risultano un pò sprecati divi quale Mastroianni e Lancaster mentre i più credibili sono Carlo Giuffrè e la Cardinale in personaggi aggiunti a quelli del testo.
Un grigio fiasco appare "Oltre la porta" (1983), un giallo "parapsicanalitico" che si svolge in Marocco, tra congressi carnali dal lato A e B. Pare un Hitchcock da strapazzo, una storia che sfugge di mano alla regista dove spadroneggia una pseudo-menade nella persona di E.Giorgi che, fortunatamente, va progettando l’abbandono del mestiere.
Più strutturata appare, invece, "Interno berlinese" (1985), trasposizione filmica del romanzo di J.Tanizaki. L’impostazione scenografica corrisponde alla fredda gestualità della giovane giapponese che usa l’eros in modo perfido contro la coppia da lei invidiata.
Nelle 1989, con "Francesco" viene ripreso ed approfondito il tema del "poverello d’Assisi", la cui vita è qui narrata dai suoi confratelli. Né essi dimenticano la
descrizione di quei tempi violenti e la prigionia e malattia del futuro santo.
Vigorosamente sincero è l’interrogarsi di Francesco sul silenzio di Dio nel corso della sua evangelica metanoia.
Che una laica come la Cavani mostri interesse a questo argomento è stato da lei stesso spiegato in ripetute interviste: "trovo rozzo chi sfoggia gratuito disprezzo per la religione che è, come minimo, strumento di analisi di molte culture ...”.
Come direttrice di attori, è sorprendente come ella abbia plasmato M.Rourke in un più che plausibile Francesco e la Bonham Carter in una delicatissima S.Chiara.
Nelle 1993, in "Dove siete? Io sono qui" descriverà l’incontro di due giovani sordomuti che trovano nel loro volersi bene un rimedio sovrano al loro malessere.
"È un’opera con momenti di grande commozione che rafforzano il monito morale e sociale dell’opera" chiosa G.Grazzini nella sua recensione.
C’è poi una lunga assenza dal cinema fino al 2002  che è l’anno de "Il gioco
di Ripley", con un ritorno al "noir". In quest’opera un uso troppo artefatto del colore finisce per soffocare il sottile intreccio psicologico tra il sadico antiquario (J.Malkovich) e i suoi "amici".
E’ da far cenno che, in questo periodo, la regista ha lavorato per la TV con le "esplorative" biografie di De Gasperi e Einstein, nonché la messa in scena di opere liriche (da “Manon” a "La Traviata”).
Quel che, nel complesso, si rileva nelle molteplici realizzazioni dell’artista carpigiana è la caparbia indipendenza dalle ideologie d’ogni tendenza.
Perciò la stessa religione è vista come espressione della cultura e del costume in dati periodi storici.
L’altra qualità evidente è l’accanita attenzione alla fisicità dei personaggi (di Francesco come del nazista Max).
E, non ultimo pregio è il saper sfuggire a quel gusto in voga di attualizzare eventi lontani nel tempo, così da evitare quelle astrazioni devianti e faziose che in nome dell’impegno possano portare a tradire
la verità dei fatti.