Un patrimonio tutto da coltivare
 







di Rosario Ruggiero




Se è noto luogo comune essere l’Italia “paese di santi poeti e navigatori”, nondimeno la storia si ostina tenacemente a dimostrarci essere la nostra penisola pure, e grandemente, paese di musicisti. Interminabile, infatti, l’elenco di artisti ed artigiani che nell’ambito della composizione, dell’esecuzione vocale e strumentale, della creazione e costruzione di strumenti e nella ricerca teorica intorno a questa magica arte hanno dato incomparabili doni all’umanità. A chiunque non volesse crederci basterà scorrere un qualsiasi buon libro di storia della musica per ravvisare subito la massiccia presenza italiana nello sviluppo di questa nobile forma di espressione.
Anche nella creazione di generi e forme non chiniamo il capo di fronte a nessuno. Una delle forme musicali più diffuse e significative, il melodramma, nacque in Italia, e così l’oratorio, l’opera buffa ed altre ancora..Giungendo quindi più vicini ai giorni nostri ecco un fenomeno
altrettanto incisivo per bontà degli esiti, significato artistico e sociale, diffusione nel mondo, adesione di poeti, compositori ed interpreti di ogni nazione e di ogni matrice artistica, culturale e sociale, quantità di appassionati, varietà delle forme e quanto più, la canzone napoletana. Ma forse sarebbe anche meglio chiamarla canzone “alla” napoletana, proprio per la sua estesa internazionalità.
Tanti la eseguono, ancor più l’apprezzano. E non è frutto spontaneo e quasi inconsapevole del popolo, ma dal popolo sensibilmente attinge. Popolari furono le villanelle, composizioni vocali cinquecentesche con testi in napoletano, ma pure in italiano e lingue straniere, genere poi diffuso per l’Europa ed abbracciato anche dai migliori musicisti del Cinquecento e del Seicento. E popolare fu la tarantella, la vivacissima danza dalle origini e dall’etimologia incerta, oggi emblema della città del Vesuvio, ma pure forma musicale che non mancò di accarezzare la sensibilità dei maggiori
musicisti di tutti i tempi, da Chopin a Liszt, a Rossini.
La canzone napoletana, classicamente intesa, invece, nacque nell’Ottocento, in contesti salottieri, adottando modi popolari, nella scelta della lingua, dell’argomento via via amoroso, sociale o festoso, e nella linea melodica a volte carezzevole, a volte intensamente lirica, a volte irrefrenabilmente ritmica, non disdegnando le attenzioni di letterati, musicisti ed altri intellettuali già ampiamente affermati nella loro primaria attività.
Così scrissero testi di canzoni napoletane Salvatore Di Giacomo e Gabriele D’Annunzio, e furono musicati da Francesco Paolo Tosti ed Enrico De Leva, ma pure vi si cimentarono autori più “spontanei” come Vincenzo Russo e Salvatore Gambardella. E con esiti non certo minori se proprio Gambardella meritò lusinghieri elogi nientedimeno che da Giacomo Puccini, e furono elogi non certo insinceri se il noto operista non si peritò poi di regalargli anche un pianoforte. Così come accadde che in
Richard Wagner destò tale ammirazione il “posteggiatore” Giovanni Di Francesco, detto “’o zingariello”, che il grande compositore tedesco lo volle con sé in Germania.
 Fenomeno musicale, quindi, la canzone napoletana, ma fenomeno anche più ampiamente sociale se, giovandosi dapprima della festa di Piedigrotta, quindi del Festival della Canzone Napoletana, fece nascere le “copielle” per la sua massima divulgazione, ossia foglietti in vendita contenenti  testo e musica, e diede luogo alle figure dei “posteggiatori”, esecutori cioè che sceglievano un posto, per strada o nei locali pubblici, come luogo delle loro esibizioni, trasformando così la città  in una grande sala da concerto, spargendosi poi per il mondo, fino alla lontana Russia, divulgando sin lì la nostra musica.
Nondimeno, documento sociologico. La canzone napoletana ha infatti espresso con dolente lirismo o con mordace satira le più significative trasformazioni sociali, celebrando via via ogni invenzione,
dall’automobile al cinematografo, alla lampadina elettrica alla funicolare, documentando fenomeni anche molto importanti, come l’emigrazione, l’americanismo postbellico o lo stile di vita “tamarro”, ossia degli zotici. Diede luogo alla sceneggiata, ossia quella caratteristica drammatizzazione di una canzone, e si dilatò in tanti generi come la “canzone di giacca” che tratta temi cruenti, o la “macchietta” che tratteggia con umorismo fatti e personaggi.
Un repertorio quindi ampio, ricco ed affascinante, qui solamente abbozzato, proprio per la sua estrema vastità. Un autentico patrimonio per l’umanità.
Perché allora relegarla sostanzialmente in una individuazione strettamente folcloristica, abbandonarla a se stessa in una proliferazione esclusivamente spontanea ed istintiva, limitandola ad una esegesi sostanzialmente aneddotica, anche talvolta attentamente sociologica, ma abbastanza distratta verso la trattazione più analitica dei principi poetici e musicali? Perché non
insegnarla nei conservatori, nelle sue prassi esecutive e creative? Il jazz viene riconosciuto dalle istituzioni didattiche anche maggiori, la canzone napoletana forse merita meno? Così, come pianta spontanea, tra alti e bassi, questa forma d’arte continua a germogliare, talvolta vigorosa e splendida, altre mestamente avvizzita, il mondo celebrandone la migliore fragranza, le istituzione potenzialmente più opportune abbandonandola, invece, distrattamente, alla selvatichezza.