Alice oltre il video Tempo -e spazio- nel web
 







Davide Turrini




Non per essere i soliti barbosi e corrucciati contestatori del web, ma sarà capitato a tutti almeno una volta negli ultimi dieci anni, di aver avuto la necessità di staccare la spina. Non una rabbiosa, luddista, distruzione della macchina computer, ma un semplice, invisibile, impercettibile, rifiuto ad accendere il macchinario infernale che da poco più di quindici anni ci collega nell’immediato, e ci permette di comunicare istantaneamente, con ogni angolo del globo. L’autostrada informatica è diventata oramai il mezzo attraverso il quale le nostre esistenze sono state accelerate in maniera sconsiderata. Da ciò si deduce, senza essere necessariamente nostalgici di carta, penna e calamaio, che il web, e la sua massima espressione di invasività come l’e-mail, hanno radicalmente modificato anche solo l’era della diretta televisiva di un ventennio addietro. Con il leggiadro e pericolosissimo obbligo di farci riscrivere le coordinate quotidiane di tempo e di spazio.
Di questo fenomeno tecnologico, filosofico, e infine politico, Marco Niada, con Il tempo breve (Garzanti, pp.192, euro 12), e John Freeman, con La tirannia dell’e-mail (Codice Edizioni, pp. 184, euro 17), hanno perlustrato le fondamenta, gli antenati storici, gli sviluppi presenti e gli scenari futuri. Il primo, corrispondente da Londra tra l’82 e il 2008 per ilSole24ore, ha redatto una sorta di saggio autocritico rispetto ad una realtà, quella della City londinese che lo vedeva coinvolto in prima persona come giornalista economico-finanziario, volata all’impazzata dentro le bolle speculative di Internet (primi anni 2000) e finanziaria tout-court (la temutissima crisi del 2008-2009). Curioso, e lodevole, che chi intervistava indaffarati manager, investitori e banchieri assortiti, primi responsabili di questa sciamannata e frenetica corsa all’oro che ha frantumato e accelerato il concetto basilare del tempo vissuto, si sia ritirato nella pace del monastero benedettino di
Ampleforth (Yorkshire) attorno al febbraio 2009, per scrivere un saggio poi intitolato Il tempo breve. E’ evidente che più il sole lo si sfiora da vicino più si tende a bruciarsi. Tanto che nell’introduzione, Niada pone alcune considerazioni di ordine etico, prima di ogni altro interessante pastiche storico-filosofico-cronachistico sull’idea di "tempo" passato/presente/futuro che arriverà alle pagine successive: «Lasciavo il Sole con le idee confuse e con la coscienza tormentata: quanto ero stato complice, peccando di superficialità, dovuta anche alla continua mancanza di tempo per verificare un universo finanziario in cui gli eventi acceleravano alla velocità della luce? Quanto ho peccato di sciatta benignità nel descrivere positivamente persone ed eventi che avrebbero invece meritato approfondimenti e giudizi assai più severi?». Paradossale che la risposta di Niada sia proprio per la mancanza di tempo: «il ritmo di lavoro sempre più martellante mi obbligava ormai a tendere verso l’onniscenza, l’onnipresenza e, per certi versi, l’onnipotenza, dato che l’imporsi di Internet e dei nuovi media mi obbligava a esibirmi con crescente inaccuratezza su un numero sempre maggiore di argomenti in tempi sempre più rapidi e serrati su mezzi d’informazione sempre più disparati. Dopo anni di vita frenetica mi era scoppiata con virulenza una crisi di allergia alla velocità».
Da qui una ripartenza morale e materiale dal concetto di tempo "pesante" degli antichi: dalla divisione sessagesimale del tempo da parte dei sumeri (7000 mila anni fa) alle clessidre d’acqua e sabbia in epoca greca; dal calendario di Giulio Cesare (45 a.c.) alla coscienza del tempo moderno fatta risalire ai conventi benedettini del 500 d.c.; dall’orologio che sbuca sulle torri dei palazzi comunali in epoca medioevale, alla rivoluzione industriale con macchine a vapore e congegni meccanici standardizzati di misurazione univoca del tempo. Il tempo breve ha così dapprima la peculiarità dell’excursus
storico, seguito dall’analisi dell’unità schizofrenica del tempo contemporaneo (un tempo prima interrotto e frantumato, poi forzato, infine accelerato) e infine conclusa con una feroce disamina dell’attuale iperstimolazione informativa del web. Quell’area semantico-comunicativa dove si sta velocemente erodendo per ognuno di noi la capacità di ricordare e riferire «cosa è importante e cosa accessorio, quali gli eventi significativi, quali i grandi artisti, poeti e inventori», con annessa domanda cruciale per noi critici: «nell’epoca della sovrainformazione ci affideremo come in passato a un esperto, a un critico che ci indichi le ragioni per cui qualcuno o qualcosa abbia valore?». Uno iperspazio culturale e informativo dove originale e copia tendono ad essere confusi; dove si sta consumando la profezia warholiana per cui tutto e tutti sono ugualmente importanti e quindi non lo sono: «la fine dell’attenzione rischia di portare all’offuscamento dell’identità e, con esso, alla fine della memoria».
Al severo monito di Niada, si aggiunge la spumeggiante e profonda considerazione filosofica dell’apprezzato critico letterario americano John Freeman, collaboratore, tra gli altri, di New York Times e The Guardian. Già nella copertina de La tirannia dell’e-mail intravediamo una bimbetta statunitense che sorregge, abbracciandolo per la pancia, un altro bambino biondo proteso a scrutare l’interno di quelle belle cassette per la posta americane a forma di pane da toast. È chiaro che per Freeman questo tourbillon di invia e ricevi, di controllo infinito della posta elettronica ad ogni ora del giorno, ha sostituito biologicamente la calma e curata produzione/attesa della missiva cartacea. Simbolo di una modalità comunicativa bruciata e cancellata, un po’ come sosteneva Niada nella formulazione del concetto di "perdita di memoria", l’e-mail ipnotica e tiranna ha modificato strutturalmente velocità e forma della comunicazione più semplice. «L’amplesso simbiotico con la macchina
preconizzato dai pionieri dell’informatica è compiuto», scrive Freeman, «ed è la velocità a cui comunichiamo che determina ciò che possiamo fare». Così ciò che ci guadagniamo in velocità del sapere nell’era del web, ce lo perdiamo in profondità e accuratezza: «interrotta ogni trenta secondi, la nostra attenzione viene spezzettata in migliaia di minuscoli frammenti. Alla mente viene di fatto precluso quel senso di profondità grazie al quale germinano le idee e si elaborano le riflessioni più complesse». La tirannia dell’e-mail è un corrosivo e caustico pamphlet sui limiti di un mezzo comunicativo intossicante «come la slot-machine"»con perfino potenzialità dannose per la vista: «l’occhio è strutturato per leggere con la luce naturale e la risposta chimica ad essa regola il sonno e gli umori (…) lo schermo del computer induce, invece, ad un’esperienza di lettura totalmente nuova: anziché cadere su una superficie da cui poi rimbalza, la luce viene proiettata direttamente nei nostri occhi, irraggiata sulle pupille». L’obiettivo dell’intervento di Freeman non è quello di stigmatizzare, pasolinianamente, lo sviluppo dell’era informatica, ma il presunto progresso: «si tratta di capire se esiste un modo per rallentare i ritmi di questa macchina, così da poterne fare un uso migliore e riuscire a mantenere una presa salda nei territori del reale. Diversamente avremo oltrepassato quel ponte che ci teneva nella penombra soltanto per entrare in un’altra, ben più inesorabile oscurità».