|
|
Basta col disincanto
Beni comuni e lavoro le nostre idee forti |
|
|
|
Intervista con Giacomo Marramao
|
Tonino Bucci
|
|
|
|
Non c’è dubbio, fino a oggi la cosiddetta Seconda Repubblica è stata il terreno più congeniale al berlusconismo. In divergenza con la Carta costituzionale l’introduzione del maggioritario dal ’93 a oggi ha generato un bipolarismo forzato, uno spazio politico propizio a una democrazia dal doppio volto, oligarchica e populistica a un tempo. Stavolta per la sinistra la posta in gioco è alta: inventare l’assetto istituzionale di una democrazia postberlusconiana. Ne abbiamo parlato con Giacomo Marramao, docente di filosofia all’università di Roma Tre. La Seconda Repubblica è in crisi. L’idea di un’alleanza democratica per salvare la democrazia dalle derive populiste la convince? La proposta di un nuovo Ulivo mi sembra una piattaforma utile per cominciare a discutere. C’è ancora qualche vaghezza sull’alleanza democratica per la legislatura costituente. In uno stato d’emergenza si potrebbe configurare come un patto politico ed elettorale vero e proprio però possono esserci anche forme di convergenza più articolate per definire regole del gioco di tipo nuovo. La proposta del nuovo Ulivo, al momento, è più definita di quella dell’alleanza democratica. Sicuramente interessante, visto che contiene chiaramente la dichiarazione del fallimento del bipolarismo. Il nostro Paese, per la sua storia e per la molteplicità dei fermenti sociali e ideali, non può essere rappresentato da questo bipolarismo che come abbiamo visto produce disastri. La linea veltroniana non poteva funzionare, quella di un partito unico ritenuto autosufficiente. Detto questo mi chiedo: ma è possibile che questa benedetta sinistra italiana in tutte le sue componenti un discorso globale, come fa - dal suo punto di vista - un Tremonti? E’ possibile che si debba sempre partire dalle questioni interne alla politica italiana o dall’alchimia delle alleanze e non si parta invece - come insegna una gloriosa tradizione della sinistra e del partito comunista - prima dallo scenario globale e internazionale, passando poi alla dimensione europea e infine al contesto nazionale? Possibile che non si riesca a inquadrare una proposta all’interno della scena globale che è quella in cui le cose effettivamente si decidono, quella destinata a condizionare le politiche economiche sociali del lavoro? Però c’è anche una più generale crisi della politica, della quale la sinistra non può non risentire. C’è una diffusa situazione di sfiducia, stanchezza, rassegnazione. Non crede? Vi è una doppia sindrome della politica italiana. Da un lato, stando a quella che è la percezione negli strati vasti della popolazione, vi è una "sindrome spettatoriale", come la chiamo io. C’è nel paese una demotivazione diffusa che io riconduco all’idea secondo cui la politica sarebbe un teatrino manieristico rispetto al quale le persone non possono fare più nulla, compresi anche gli intellettuali e le persone che lavorano con la penna. Dall’altro, intravedo una "sindrome neotribale". In luogo delle logiche di partito e delle eventuali divisioni tra un partito e l’altro noi assistiamo sempre più a una pluralità di aggregati neotribali. Anche i partiti che sembrano avere il collante più forte, come la Lega, in realtà se andiamo a vedere al loro interno sono attraversati da questa logica di contrapposizione tra una componente e l’altra. D’accordo, ma la logica della frammentazione si supera solo se si dispone di proposte realmente unificanti. O no? In Italia s’è venuto determinando uno iato tra la dimensione reale e quella simbolica. Il consenso a Berlusconi fino ad oggi s’è basato sul fatto che molte persone ritengono di vivere in una condizione diversa da quella materiale in cui effettivamente si trovano. Come è possibile suturare questa frattura tra materiale e simbolico che viene occupata dall’immaginario neopopulista e mediatico berlusconiano? Riprendendo, a mio parere, il discorso simbolico sul lavoro. Ad esempio, il primo punto del programma qualunque sia la politica sociale ed economica che si voglia assumere, neokeynesiana o meno, dovrebbe essere il seguente: il lavoro è un diritto umano fondamentale. Tutto il resto dovrebbe derivare da questo principio. La lotta contro il precariato dovrebbe essere il dato unificante, quello in grado di conquistare anche i giovani. In secondo luogo, bisogna ripensare l’architettura istituzionale. Quali sono gli aspetti della Costituzione italiana che non sono stati ancora realizzati? Quali sono gli articoli fondamentali violati nel corso degli ultimi anni o, addirittura, nel corso di decenni? Quale rapporto istituire tra il diritto alle autonomie e il federalismo, da un lato, e il mantenimento dell’unità del paese, dall’altro? Tremonti ha mutuato molte tesi senza che noi ce ne accorgessimo dall’elaborazione di sinistra, quelle sui beni comuni, ad esempio, fino alla citazione del Berlinguer dell’austerità con un abilissimo scavalcamento. Noi stiamo vivendo in un’epoca di doppia fine: la fine del comunismo di Stato e la fine del sogno neoliberista, sancita dalla crisi del 2009 dell’economia di carta e della globalizzazione finanziaria. Ora si tratta di costruire una società diversa. Per Tremonti, naturalmente, la società diversa è il comunitarismo, per un verso, e la logica del Dio, patria e famiglia, dall’altro. Ma per noi questa crisi del "mercatismo" deve essere l’occasione per pensare un nuovo modo dell’essere in comune, di concepire il comunismo, a partire da una concezione dei beni comuni, come le strade, l’aria, l’acqua, ossia le condizioni di possibilità delle forme di vita associate. Rispetto a Tremonti (o a Marchionne) la linea di demarcazione è che loro dicono che la lotta di classe è finita e che il conflitto capitale-lavoro non esiste più. Questa è la balla più solenne. Quanto ha inciso il disincanto nella crisi della sinistra? Se volessi lanciare un messaggio al Pd, direi che alcuni suoi esponenti a fatica si distinguono da quelli del Pdl per la maniera di comportarsi e di fare politica. Se dovessi dirla tutta a Bersani, noi non possiamo più battere sul tasto del disincanto, sia pure nobile à la Max Weber, altrimenti si rischia di portare acqua al mulino del cinismo politico imperante. Oggi è venuto il momento di reincantare la politica, rilanciare idee forti ed elaborare un progetto di società, sul quale si possano fare dei passi in comune. Il berlusconismo ha vinto soprattutto perché ha inventato una sua narrazione, ha conquistato l’immaginario, è penetrato nei nostri desideri. Non è così? Il desiderio non è stato manipolato a valle ma è stato precondizionato a monte. Nei sistemi postdemocratici, formalmente democratici ma in realtà neopopulisti e mediatici, il potere si manifesta non nella manipolazione dei bisogni ma nella stessa costituzione dei bisogni, determinando il momento sorgivo del desiderio. Quello che Zizek definisce la coazione alla jouissance, al godimento. Ma più che coazione è una costituzione della dimensione pulsionale del desiderio alla fonte il quale viene colonizzato dall’immaginario, dal potere delle immagini e delle forme di comunicazione. Mentre la sinistra parlava di disincanto e faceva dei discorsi di una sobrietà che sconfinava nel cinismo (e nella noia), Berlusconi prometteva la felicità: godete e arricchitevi! A questa idea dell’immaginario berlusconiano non possiamo contrapporre la piattezza del disincanto. Dobbiamo opporre la potenza del simbolico, fare uscire le generazioni presenti dalla sindrome delle passioni tristi e riaprire il futuro. La narrazione, l’immaginario, se produce una qualche trama di senso in un vuoto esistenziale, è sempre più forte della piattezza del disincanto.
|
|
|