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RICCHE AMICHE INDAFFARATE CONTRO I TABU' |
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di Cristina Piccino
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«Crepate, bastardi!», primo film a colori di Suzuki illumina lo schermo veneziano per la Storia segreta del cinema asiatico. In Orizzonti passa «Moto perpetuo» di Ning Ying, tra high society, mariti e nouvelle cuisine Lo spazio tra la sala Volpi e il cinema Astra, che è anche la sola sala «lontana» dal triangolo metaldetectato e soffocante del palazzo, spalanca vertigini su visioni a parte. È lì infatti che ogni giorno vengono proiettati i film della retrospettiva, quella Storia segreta del cinema asiatico che come sussurrano i più esperti e i «cultori» del settore non avrà pure preso dei rischi ma colleziona comunque titoli inediti ai più in copie magnifiche restaurate grazie al supporto della fondazione Prada. Le sale sono piene, il pubblico piacevolmente eccentrico, lì almeno i film non sono oggetto d'uso (abusato) per i temibili programmi tv dedicati alla Mostra, non c'è il tormento dell gara e del Leone, e del cinema italiano che deve vincere (spiegarlo senza ricorrere all'autarchia degli interessi è cosa complicata, se ci si ferma al gusto del film diventa impossibile), e insomma dispiace andarsene richiamati dall'attuale della Mostra sperando che tutti questi film, a parte l'uscita in dvd, circuitino in Italia nei prossimi tempi. Mattino con Suzuki, di questo giovanissimo ottantenne (è nato nel 23), imprevedibilità poetica e un piacere della sorpresa che condivide con l'altro grande fanciullo De Oliveira, passa Crepate, bastardi!, 1960, il primo film - leggiamo sul catalogo - realizzato da Suzuki a colori e «con esperimenti cromatici in forma anti-narrativa». Eppure produce la Nikkatsu una storia di yakuza, eredità del potere, speculazione edilizia e figli più o meno segreti srotolata su un set lounge raffinatissimo di tacchi a spillo, cravattine sottili, musica mix. L'intuizione è proprio qui, capovolgere il «genere» senza traumi ma radicalmente, che nessun film sarà possibile farlo come prima. E con lavoro sottile, mai autoritario, nel pensiero che lo spettatore da solo trovi il suo punto di vista in quei movimenti visuali. Suzuki teorizza la non-espressione, il contrario del narcisismo d'autore, dunque godimento massimo e rivoluzionario del film. Più che esprimermi faccio a modo mio è la sua dichiarazione poetica, esercizio di sovversione prezioso, che incanta nelle immagini rovesciate nella riconoscibilità di Tsui Hark o di Garrel o di Ferrara. La Mostra è questo ma è o dovrebbe essere anche macchina complessa (c'è l'attesa dell'evento a venire, la Biennale teatro di Romeo Castellucci, che è enorme quantità di proposte ma soprattutto sfida di un'invenzione teatro), finora ci manca la folgorazione inattesa, O Fantasma del 2005 e poco importa poi se il secondo film ( Odete è comunque geniale) funziona o no ma lì è successo qualcosa di irreversibile che ha spostato il tuo sguardo. Però. Negli Orizzonti è arrivato ieri Moto perpetuo di Ning Ying, nata a Pechino e approdata a Roma al centro sperimentale, assistente di Bernardo Bertolucci sul set dell'Ultimo imperatore, cineasta tra fiction e documento, equilibrio difficile e rischioso ma lei ha energia da fuoriclasse e infatti anche se sarebbe «quinta generazione» dei Chein Kage o dei Zhang Yimou, le sue immagini pulsano più vicino a un Zhang Yuan - che è qui nella Storia segreta parte cinese col suo Mama - o di un Jia Zhang Ke, insomma le generazioni del dopo Tien An Men cresciute nell'urgenza di un cinema che affronta il «pericolo» della realtà con forma spettacolare ruvida e raffinata insieme, glocal e universale. Avevamo lasciato Ning Ying, in Italia inedita se non nel «circuito» dei festival (e parla pure benissimo italiano) con Railroad of Hope, La ferrovia della speranza, incursione senza retorica nel meccanismo di costruzione dell'economia come potenza, la ritroviamo in questo stesso meccanismo quattro anni dopo con Moto perpetuo (Orizzonti), che ha sempre protagoniste donne, lì contadine che macinano centinaia di chilometri per la raccolta, qui quattro amiche dell'high society, ricche, curatissime, di successo, entrambe immagini a diversa angolazione della Cina oggi. La ferrovia della speranza si dichiara documentario ma appunto nel cinema di Ning Ying il confine glissa, è segno obliquo di una messinscena necessaria. E anche le sue quattro protagoniste sono «nella vita» donne di successo, Liu Sola che insieme alla regista e all'editrice Hong Huang ha scritto la sceneggiatura, è musicista internazionale. Sono amiche, e infatti il film ci aveva raccontato Ning Ying nasce dal desiderio comune di rompere l'immagine vincente del cinema asiatico, ragazze bellissime e giovanissime soddisfazione degli opportunismi del neo-esotismo a occidente come a oriente. Moto perpetuo invece, racconta quarantenni e più che la mattina si alzano un po' sfatte, parlano di rughe pancia e menopausa e insieme rompono altri tabù che le vorrebbero già dimenticate dal mondo di desiderio e sessualità. Niuniu la protagonista, un'editrice molto famosa, invita le tre amiche per capodanno. L'intento è scoprire quale scrive mail più che sexy (lei ci ha curiosato) al marito scrittore di successo che «più ha successo più è noioso». E che naturalmente nel frattempo è fuggito con l'immancabile diciottenne...Non è comunque questo il cuore della storia, l'incontro apre su altro, un passato con cui le quattro ricche e potenti amiche sono incapaci di confrontarsi. Oggi sono prese dal cagnolino tutto vezzoso che una di loro ha paura la cameriera di Niuniu metta in pentola («ha una faccia vecchia da rivoluzionaria»), mangiano terribile cibo nouvelle cuisine, le zampe di galline che erano dei poveri, hanno vestiti e viaggi e sembra dirci Ning Ying qualcosa si è perso. Memoria? Onestà? Coraggio troppo umano? Non è questione di identità o di tradizione il cinema di Ning Ying. E neppure di nostalgia, ce lo aveva già raccontato la Trilogia di Pechino con le sue figure marginali, ce lo dice Moto perpetuo prima volta nel cinema (cinese) della classe altoborghese, dunque non eroine stritolate dal mercato eppure anche loro frammenti di una globalizzazione della perdita. La tradizione non c'entra e anzi le protagoniste i pensieri rivoluzionari che tanto le spaventano ora li hanno metabolizzati con sapienza costruendosi spazi e identità che la «tradizione» cinese nega alla donna. Il «moto perpetuo» è più questione di resistenza, sta nel gioco dei contrasti che è l'immagine finale, la sola fuori dall'appartamento, e nell'uso sapiente del mercato, lezione rivoluzionaria fuori dal tempo. da Il manifesto
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