Il culto della precarietà
La destra non fa sconti
 







Massimo Roccella




Reintrodurremo i contratti a termine». Anche in questo caso le parole del ministro [del Lavoro, Maurizio Sacconi, ndr ] non consentono immediatamente di capire: come se la precedente maggioranza di centro-sinistra, presa da un raptus rigoristico, si fosse dedicata a una drastica azione di eliminazione del lavoro precario (spingendosi, addirittura, oltre ogni ragionevolezza, dal momento che è ben nota l’esistenza di settori e attività ove l’occupazione si presenta con caratteri strutturalmente temporanei). Vale la pena, dunque, di chiarire e, soprattutto, di ricordare - cosa sempre necessaria in un paese dalla memoria corta come il nostro - gli aspetti essenziali della lunga querelle attorno ai contratti a termine, cominciata all’inizio del decennio, a partire da quando il precedente governo Berlusconi (sottosegretario al Lavoro l’onorevole Sacconi) provò a liberalizzare la precedente disciplina in materia, col pretesto di dare attuazione a una direttiva dell’Unione Europea, cancellando il principio in forza del quale il rapporto di lavoro subordinato si instaura a tempo indeterminato (salvo eccezioni espressamente previste dalla legge o dai contratti collettivi) e, soprattutto, consentendo di abusare di questa forma di assunzione mediante reiterazioni della stessa rese possibili senza limite alcuno.
Riuscita per il secondo aspetto, l’operazione era però andata storta per il primo: la giurisprudenza, infatti, aveva continuato compattamente a sostenere che la regola dell’assunzione a tempo indeterminato dovesse considerarsi immanente al sistema, non foss’altro perché prevista proprio dalla pertinente direttiva europea (la quale, peraltro, imponeva anche di contrastare proprio gli abusi derivanti dalle assunzioni a termine cosiddetto -a catena- e, dunque, anche su questo punto era stata travisata in sede di trasposizione).
Il successivo governo di centro-sinistra, dopo aver speso molte promesse di ri-regolamentazione
della materia, non essendo anch’esso davvero immune dal virus della flessibilità a prescindere (leggasi: precarietà), poco poi in concreto ha fatto. La regola dell’assunzione a tempo indeterminato è stata in effetti espressamente ripristinata, a seguito di un emendamento presentato dalla sinistra della coalizione (allora presente in parlamento) al disegno di legge governativo di attuazione del cosiddetto Protocollo welfare, stipulato fra governo e parti sociali nel luglio 2007; quanto al contrasto delle assunzioni a termine «a catena», è stata introdotta una disciplina debolissima (non a caso su questo punto si giunse a un passo dalla rottura fra l’esecutivo di Romano Prodi e la Cgil in sede di negoziazione del Protocollo welfare), che pone un limite temporale apparente di 36 mesi al lavoro precario: solo apparente, perché nulla impedisce che fra un contratto a termine e l’altro lo stesso lavoratore possa essere utilizzato dal medesimo datore di lavoro mediante altre forme di impiego precario (ad esempio ricorrendo alla mediazione di un’agenzia di lavoro interinale), cosicché la durata della condizione di precarietà potrebbe anche tranquillamente raddoppiare e, comunque, non risulta predeterminabile.
C’era dunque bisogno di rendere ancora più elastica una disciplina del genere? Soltanto chi fosse stato in preda a bulimia di lavoro precario avrebbe potuto pensarlo. E farlo. Non si poteva più abrogare la regola dell’assunzione a tempo indeterminato: sarebbe stato impossibile, infatti, giocare di nuovo sull’ambiguità, dire e non dire come s’era fatto nel 2001, dal momento che una nuova cancellazione avrebbe rivelato, fin troppo palesemente, la volontà di disattendere la direttiva dell’Unione Europea; si è allora cercato di annacquarla, precisando che le esigenze tecnico-organizzative, che vanno indicate nel contratto di lavoro per giustificare l’assunzione a termine, possono anche essere «riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro». La modifica davvero
rilevante, ad ogni modo, ha riguardato la regola di durata massima (apparente, come s’è detto) di 36 mesi, che dovrebbe servire a contenere gli abusi derivanti da assunzioni successive a termine: alle svariate possibilità di elusione già consentite dalla legge 247/2007, infatti, si è aggiunta la facoltà di derogare alla regola in parola mediante -diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale-. Dopo tante parole lasciate circolare senza parsimonia contro la piaga del lavoro precario, si noti la sottile perfidia di costringere i sindacati nella situazione di sottoscrivere accordi che sanzionano senza limiti il ricorso allo stesso. Basti riflettere un attimo sui prevedibili effetti di una norma del genere: -Siamo in un’azienda in cui un lavoratore a termine è stato assunto per più di tre anni. […] In base alla legge non può più essere riassunto. L’azienda chiede alla rappresentanza sindacale di fare un contratto in deroga in maniera da consentire a quel lavoratore una nuova assunzione a termine: quale mai Rsu potrà lasciare quel lavoratore senza un’occupazione, per quanto precaria-, prescindendo dal farsi troppe domande sul carattere, obiettivamente temporaneo o meno, dell’occasione di lavoro?
Il culto della precarietà, d’altronde, è di quelli che richiedono a ogni piè sospinto rinnovate celebrazioni. Dev’essere per questo che il governo della destra non ha voluto lasciarsi sfuggire l’opportunità di ripristinare prontamente le poche norme della legge Biagi, ch’erano state abrogate nella precedente legislatura (anche perché poco o per nulla utilizzate dalle imprese). Con lo stesso decreto legge 112/2008 si è così provveduto immediatamente a rilegittimare il lavoro intermittente (meglio noto come lavoro a chiamata: si tratta, infatti, di una sorta di part-time a zero ore, in cui al lavoratore non viene riconosciuta nessuna garanzia, neppure minima, di svolgimento d’una prestazione lavorativa, la consistenza di
quest’ultima dipendendo esclusivamente dalle eventuali chiamate del datore di lavoro). Quanto allo staff leasing (ovvero al lavoro interinale a tempo indeterminato - apparentemente una contraddizione in termini - utilizzabile dalle imprese per far fronte a esigenze tutt’altro che temporanee, senza però assumere direttamente i lavoratori così impiegati, con il vantaggio dunque di potersene sbarazzare, all’occorrenza, evitando di rispettare le fastidiose regole in materia di licenziamenti), c’è voluta un po’ più di pazienza, ma alla fine anch’esso è stato festosamente riaccolto nella vasta famiglia del lavoro precario, mediante un codicillo inserito ad hoc nella legge finanziaria 2010 (ovvero in un contesto che dovrebbe essere dedicato a tutt’altre questioni) [...].
È ancora nell’ambito della disciplina generale del contratto a termine, ad ogni modo, che si può rintracciare il pacco dono più pregiato per i lavoratori precari. Non si tratta ancora, al momento della scrittura di queste
note, di norma di legge, avendo il presidente della Repubblica respinto al mittente il testo approvato dal parlamento (disegno di legge 1167, cosiddetto -collegato lavoro-) che lo contiene, ma alla fine - si può star certi - il pacco dono giungerà a destinazione. Dopo averne lacerato l’involucro, i lavoratori precari scopriranno che è stata riservata loro una doppia sorpresa: non soltanto l’impugnazione del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro dovrà essere effettuata entro un breve termine di decadenza di sessanta giorni, sinora inesistente, cui è stato aggiunto un ulteriore termine di decadenza di sei mesi entro il quale depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale; ma è destinata a venire meno, nei casi di accertata illegittimità del termine, la possibilità di ottenere, oltre alla conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro, il risarcimento integrale del danno, potendo il giudice in futuro riconoscere soltanto un indennizzo di importo compreso fra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione percepita, da liquidarsi discrezionalmente secondo criteri vagamente equitativi, quale che sia l’importo del danno effettivamente subito dal lavoratore a seguito dell’illegittima cessazione del rapporto di lavoro [...].
L’articolo integrale è sul numero di "MicroMega"