J.SVERAK : IL CINEMA CECO, QUESTO SCONOSCIUTO.
 







di Antonio NAPOLITANO




Un’altra cinematografia fra quelle straniere che vengono fatte conoscere poco in Italia è quella ceca. Eppure si tratta di una produzione che per vari decenni ha mostrato una vigorosa vitalità e un notevole grado di impegno estetico.
Tanto a partire dai Rovensky e dai Machaty presenti a Venezia (e premiati) nei suoi anni d’oro e, nel dopoguerra, con gli Steklj ("Sirena", 1947) e i Radok ("Ghetto Terezin", 1949) nonché i Krejcik ("Il principio superiore", 1959) e i Weiss ("Romeo, Giulietta e le tenebre", 1961), per citarne solo qualcuno.
Mentre alcuni di questi autori furono visionati anche nelle nostre sale, dagli anni ’70 è difficile che in esse appaia un film cèco.
Certamente, l’occupazione sovietica del ’68 è stata l’equivalente di un sisma in seguito al quale si è avuta una diaspora di talenti (M.Forman negli USA, Jan Kadar in Canada e E.Schorm, J.Nemec in altri paesi).
I dissidenti come Menzel o Kachina sono stati
particolarmente ostacolati dalla occhiuta censura instauratasi nella "democrazia popolare".
Una controprova della imminente bufera si ebbe a "Sorrento ’69" in cui vennero proiettate le ultime opere di uno Jakubisko e di una Chytilova poi scomparsi per anni nella vertigine dittatoriale dell’Est.
Un declino forzoso è stato anche quello subito della scuola di Barrandov (cinema di animazione) in cui si erano distinti i talenti di J.Trnka ("L’usignolo dell’imperatore" 1948 e "Il bravo soldato Schwejk"1955) nonché di K.Zeman ("La diabolica invenzione" 1957) e di B.Pojar col suo cinema di marionette ("Speibl in pista" 1967).
E dalla "caduta del muro" in poi non sono stati importati che rari esemplari del cinema boemo escludendo finanche quelli premiati in vari Festival, quali "Sul filo del rasoio" di Z.Tyk(1995) e "Il ritorno dell’idiota" di P.Vaclav(1999).
Eccezionalmente, una buona accoglienza l’ha avuta un’opera di Jan Sverak (Zatek,1965), l’ottimo "Kolya" (1995) ma forse
solo dopo essere stato laureato con un Oscar (tipico passe-partout per avere oggi un "entry" nel Bel Paese!).
La vicenda si svolge nella Praga depressa dei primi anni ’90 e narra di un violoncellista semidisoccupato che, per denaro, accetta di sposare una donna russa mirante ad ottenere la cittadinanza cèca per espatriare in Occidente.
Raggiunto il suo scopo, ella abbandonerà il figlio Kolya a Luka il suonatore di cello, anche perché è deceduta la nonna che avrebbe dovuto prendersene cura.
Kolya è un birbantello di otto o nove anni dalla lingua affilata che risponde all’adulto in russo, dando il via ad una serie di fraintendimenti e polemiche dato che le due lingue, entrambe slave, non sempre combaciano.
Pian piano, però, i due finiscono per armonizzare ed è con un preciso ritmo che avviene lo slittamento dei sentimenti verso la comprensione e la tenerezza reciproca.
Sverak sa, però, sfuggire al mélo con la realistica conclusione di struggente tristezza (la madre
torna a riprendersi il figlio).
In precedenza il regista cèco aveva girato "Scuola elementare" (1991) sulle vicende di un maestro, ex partigiano, che prende le redini di una classe di "gianburrasca" che l’anno precedente ha fatto letteralmente impazzire una timida e goffa insegnante.
Lui li domerà a furia di bacchettate e, al contempo, li sedurrà con i suoi racconti di guerrigliero fino al punto da renderli conniventi con le farfallonate che egli opera con qualche attraente collega (ed ex-alunna).
Anche in questo caso, non mancano spunti di fine  umore mitteleuropeo nonchè richiami agli stilemi di un Capek o del più recente Hrabal.
Acuta è la descrizione di certe curiosità adolescenziali specie nei riguardi del sesso opposto nonché di quelle ragazzate ai limiti del rischio fisico.
Nel 1996 Sverak dirige "Akumulator" brillante satira della TV tirannica e onnipervasiva.
E’ un’altra delle diverse pellicole non visionate in Italia (come "Dal Metrò con amore" o
"Kuki", ad esempio).
In "Akumulator"  il succube della dispotica emittente è il giovane Olda le cui energie sono assorbite quasi per intero dal terribile  "elettrodomestico".
Invano un suo anziano amico e mentore cerca di guarirlo con cure drastiche, quasi da stregone (l’attore è di nuovo il padre del regista, Zdenek S.).
Solo il colpo di fulmine per la giovane dentista farà ritrovare a Olda la forza per reagire alla nefasta influenza del piccolo schermo.
E, "troppa grazia Sant’Antonio!", egli si impegnerà a far strage di televisori, quasi avendo "accumulato" in sè un’energia demiurgica capace di distruggerli anche a grande distanza.
Il film ottiene premi a Bruxelles e in altri festival (Tokio, Berlino), ma non se ne parla in Italia.
Nel 2001, "Dark blue world" passa fortunatamente anche sui nostri schermi per qualche settimana, e, naturalmente, assai poco pubblicizzato.
Esso narra degli eventi che seguono allo scatenarsi della furia bellica
nazista nel 1939.
Dopo l’invasione del loro paese, il tenente Franta e il suo giovanissimo pilota Karel riescono a raggiungere l’Inghilterra per collaborare con la RAF.
I numerosi duelli aerei in difesa delle città britanniche si alternano, in flashforward, con gli accadimenti in patria. Dopo il colpo di stato comunista del ’48 Franta è finito in carcere per sospetta collusione con l’Intelligence Service, dati gli anni trascorsi nell’U.K.(!).
Intrecciati a questi episodi si hanno quelli del rapporto tra il tenente e Karel, tempestosi data la rivalità nell’amore per la bella lady che li ha ospitati.
Dopo una dolorosa e violenta rottura tra i due, ci sarà una virile riconciliazione con vicendevole perdono, ma senza zuccherosità retoriche.
Anche qui, nel plot non mancano sprazzi di scintillante ironia sui casi umani, in guerra e in pace.
L’ultimo, "Empties" (2008) non è passato nelle nostre sale e si conferma in tal modo il disinteresse per quelle cinematografie,
quali la cèca, svedese, ungherese, polacca,  russa che assai poco privilegiano il divismo o il "thrillerismo" o lo "horror" cioè gli spurii mezzi di adescamento dell’audience oggi in gran voga a dispetto della X Musa.
Così si incrementa, giorno dopo giorno, l’incultura e la disinformazione stessa sulla produzione complessiva in Europa e nel mondo.
E così ci arrivano, come dalla recente mostra di Venezia, bordate di gossip, scoop, e cronache mondane di una stupefacente banalità: una sorta di "star-addiction" da parte di inviate speciali ipnotizzate dai défilés sui "red carpet". E si assiste a quei premi dati da strane giurie viziate da crassa ignoranza e da "amoral familism". E proprio da parte di quei cineasti americani che ci hanno da sempre accusato di soffrirne quale retaggio del guicciardiniano “particulare".