La crisi politica del Cav
 







Anubi D’Avossa Lussurgiu




-Luglio è stato un mese che ha riservato sorprese-, avevano preconizzato gli ambienti di Palazzo Grazioli al rientro del capo dal G8-G20 di Toronto e dalla trasferta brasiliana. Avvertimento minaccioso, rivolto in prima istanza al Fini che -rema contro- all’interno del Pdl. Ma era un avvertimento rivolto ad uno spettro molto più ampio di interlocutori pericolosi per il controllo del Cavaliere sugli assetti di potere e per quello del suo entourage sul governo. Ad esempio, si è capito poi che era rivolto anche alla Lega: lo si è rilevato nel tentativo di forzare direttamente la mano a Tremonti, fino a ventilare l’accettazione di sue dimissioni; e lo si coglie bene nel lavorìo d’apertura ad un ingresso dell’Udc. E però: queste «sorprese» annunciate si rivelano nient’altro che colpi di coda, disperati tentativi di navigare nella tempesta su una zattera già in naufragio, a fronte di quelle che il luglio 2010 ha riservato a Silvio Berlusconi.
Proprio alla vigilia della
"conta" sul ddl intercettazioni, l’edificio politico del Cavaliere subisce infatti gli sconquassi peggiori ad opera d’una indagine che sulle intercettazioni si basa: è l’ affaire Carboni-Verdini, che passo passo travolge pilastri della cerchia berlusconiana, ri-diventa l’ affaire Cosentino, si congiunge con l’altro filone più minaccioso, quello sul G8 e la Protezione Civile di Guido Bertolaso e finisce per coinvolgere il fantasma di sempre, Dell’Utri. Il tutto all’ombra, formalizzata dalla natura stessa dell’indagine, del fantasma originario dell’agonia della Prima Repubblica: lo spettro della P2, o perlomeno del suo modello perpetuato nell’ipotesi dei magistrati dal coordinatore del Pdl e da una vecchia conoscenza quale Carboni, consacrando l’adagio per il quale quando la storia si ripete la tragedia si muta in farsa.
Così il «mese decisivo» si presenta ora come l’estate più calda di Silvio Berlusconi: adesso il Cavaliere, che molto ha dovuto già imparare a temere dalla Lega e dal
suo ferrigno asse con il superministro dell’Economia e della Crisi, vede stringersi un cerchio intorno allo stesso core business della sua gestione politica. Come lo spettro di Banco gli deve apparire ora la figura di Dell’Utri sovrapposta a quella di Cosentino e Verdini e che su questi impedisce di ricorrere al mezzo invocato dai finiani, ossia il dimissionamento come con Brancher, senza aprire una voragine incomparabile. E la risorsa di sempre, la sapienza manovriera di Gianni Letta, si trova a questo punto esposta in prima linea allo stringersi del cerchio, come già s’era intuito dalle evoluzioni della vicenda Protezione Civile: tant’è, ha già bruciato in un’accelerazione febbrile le sue migliori cartucce, con quella cena sulla terrazza di Bruno Vespa e il tentativo d’apertura del cantiere delle «larghe intese» invocate da Casini e destinate più prosaicamente al suo "soccorso bianco".
L’idea era, apparentemente e per come l’ha non per caso voluta esplicitare Sandro Bondi in
extremis , che Bossi e la Lega potessere accertare questa capriola a pro della salvezza politica del Cavaliere ricevendo in pegno l’estromissione di Fini e compagnia. Idea sbagliata e segnalata tale dal Senatùr in persona nel tempo d’un battito di ciglia, nonostante Bondi abbia anche dopo voluto cercare di convincerlo. Col paradosso che, di fronte all’alzata di scudi leghista e al diktat ben scandito su un passaggio di crisi politica, ossia che andrebbe obbligatoriamente formalizzato e non potrebbe che portare ad elezioni anticipate, sono ora i finiani a giocare con l’apertura all’Udc. Mentre persino tra i più adusi alla pedissequa ripetizione della linea del capo i sintomi del panico cominciano a prendere la forma della defezione: come per il ministro agli Affari esteri Franco Frattini, che sull’imbarco di Casini e del suo partito sfodera una definizione più leghista che mai, -tradimento-.
Intanto, dall’altra sponda della disperata trama lettiana, allo stesso Casini viene a mancare
il Pd. Non solo la vecchia leadership veltroniana che con Franceschini e il peso del suo ruolo parlamentare ha dapprima sbarrato la strada alle profferte di Pierferdi per un governo di "giubileo" del Cavaliere: bensì anche la conduzione attuale, con il niet di Letta nipote, Enrico, e con quello definitivo del segretario Pierluigi Bersani. Per il quale il -fallimento- di Berlusconi e il -superamento del berlusconismo- rappresentano un -punto insuperabile-. Non è la disponibilità alla sfida del voto anticipato come nel caso dell’Idv di Tonino Di Pietro, ma di certo è l’indisponibilità alla formula di Casini.
L’Udc, certo, non si fermerà. Lo fa capire il segretario Cesa chiarendo che la richiesta è rivolta a Berlusconi ed è di -prendere atto della situazione e di fare un appello alle opposizioni, compreso il Pd, e a chi vuole aderire a questa idea-. Ciò che è compreso è superfluo, s’intende, la volontà prevale. Cesa cerca un qualche appiglio laddove da più in alto può venire, quando
dice che «non affrontare seriamente il discorso delle riforme sarebbe irresponsabile». Ma sta di fatto che, come s’era già capito, la volontà prevalente per la legge dei numeri è quella che farà valere la Lega.