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Il diavolo USA veste la tuta blu? |
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di Monica De Sisto
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E se l’alibi perfetto per gli Stati Uniti per non fare alcun passo avanti al vertice di Cancun verso la riduzione delle emissioni vestisse… in tuta blu? L’amministrazione di Obama, infatti, sta procedendo a passi veloci nell’indagine che la dovrebbe portare a capire se i sussidi che la Cina sta investendo per spingere in patria verso una riconversione industriale e una produzione di energia “verdi” violino le regole della concorrenza commerciale internazionale. In caso affermativo, Ron Kirk, responsabile americano al Commercio estero, ha già annunciato che istruirebbe una corposa causa presso il tribunale delle dispute dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). “Per gli Stati Uniti - ha detto Kirk - il settore dell’energia pulita è di vitale importanza. Le tecnologie verdi saranno un motore per la crescita dell’occupazione e l’amministrazione è impegnata ad assicurare che tutti gli attori del settore giochino seguendo le stesse regole”. Il team di Obama, in questa direzione, ha avuto buon gioco a calare la carta della propaganda interna dato che i legali della United Steelworkers, il più importante sindacato a stelle e strisce che rappresenta i metalmeccanici, hanno compilato un ricorso di 5800 pagine lamentando proprio la violazione da parte della Cina delle regole commerciali internazionali a causa di investimenti da centinaia di migliaia di dollari che sostengono produttori ed esportatori nazionali di tecnologie verdi. Quello che è vero è cha la Cina sta investendo molto più degli Stati Uniti in particolare nel sostegno delle energie rinnovabili. Stando alle stime della ong americana The Pew Charitable Trusts, nel 2009 ha speso 34.6 miliardi di dollari per sostenere la produzione e l’impiego di fonti di energia più o meno “pulite”, a fronte di un investimento Usa da 18,6 miliardi. Siamo, così, rispettivamente a una spesa da 0,39% del Pil cinese, contro lo 0,13% statunitense, a confronto con la vetta della classifica dei virtuosi che vede al primo posto, nel 2009, la Spagna on uno 0,74% del proprio Pil destinato al settore, e la Gran Bretagna con lo 0,51%. E’ anche vero che, ad esempio, oltre il 90% dei pannelli solari Made in China non servono a produrre energia in patria ma vengono prodotti per la domanda internazionale. E’ anche vero, però, che se un rapporto del Dipartimento delle Nazioni Unite su economia e sviluppo sociale (UNDESA) stima che per innescare il “green new deal”, cioè una vera “rivoluzione verde” che parta dal lavoro e dalle produzioni bisogna mobilizzare almeno tra i 500 e 600 miliardi di dollari l’anno per i prossimi 10-15 anni per far si che il costo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili diventi accessibile per tutti, si dovrà pur cominciare a metterci più di qualche spicciolo. Ed è pure una realtà che se questa rivoluzione fosse presa davvero sul serio, i primi a guadagnarne sarebbero proprio le tute blu statunitensi, che hanno la fortuna di abitare in uno dei Paesi, insieme a Giappone e Unione Europea, che concentrano nelle proprie mani il numero maggiore di brevetti tecnologici verdi e che quindi, potenzialmente, potrebbero vivere una grande espansione occupazionale. Questo braccio di ferro getta un’ombra davvero nera sul futuro del vertice di Cancun e del pianeta. La Cina, che attualmente è il Paese con le maggiori emissioni di gas inquinanti del mondo, si considera ancora “in via di sviluppo” e si rifiuta di fissare obiettivi fissi e verificabili per la loro riduzione. Afferma che tocca ai Paesi sviluppati assumersi la responsabilità di massicce riduzioni delle emissioni di gas inquinanti nell’atmosfera. Jonathan Pershig, delegato Usa alla ultima riunione delle Nazione Unite contro i cambiamenti climatici che si è svolta proprio in Cina, a Tianjin, in preparazione del vertice di Cancun, ha lamentato che la comunità internazionale “non ha ancora trovato una strada per il successo”. Le imprese statunitensi, quelle europee, quelle giapponesi, però, hanno trovato la strada della Cina molti anni fa, ormai. Attratti, come noto, dal livello basso di retribuzioni e di regole su qualità, tutela del lavoro, welfare. Distratti, tra l’altro, rispetto all’impatto ambientale e sociale della propria espansione a Est anche in patria. Suggeriamo a loro, ma anche ai dirigenti della United Steelworkers, di non buttare preziose risorse in consulenti legali alla moda, ma di rileggersi gratis i documenti delle organizzazioni sindacali dei metalmeccanici italiani ed europei, che da anni chiedono di rendere più efficaci gli obiettivi di riduzione della CO2, in base al principio cardine della politica ambientale del "chi inquina paga", e di incentivare l’innovazione nei processi e nei prodotti, a partire dalle aziende già oggi più virtuose. Non costa nulla, e funziona: proviamo? |
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