C.MAZZACURATI: UNO AMPIO SGUARDO SUL PRESENTE.
 







di Antonio NAPOLITANO




Carlo Mazzacurati

Già quindici anni fa, tra i Moretti, gli Amelio, gli Avati, lo storico G.P.Brunetta collocava altresì Carlo Mazzacurati dato che in lui, come negli altri registi scorgeva “la netta volontà di ricreare uno sguardo comune sul presente”.
In una intervista, il regista padovano (classe 1956) diceva che "il suo desiderio era" di scavalcare un cinema sperimentale e innovativo..." per poter rappresentare la storia "come momento centrale e per lavorare su personaggi e atmosfere e reali".
Mazzacurati è, fin da giovanissimo, animatore del club della sua città e, perciò, giunge alla maturità quando la risacca brigatista degli anni tra il ’70 e il ’80, ha esaurito la sua veemenza utopica e "rivoluzionaria".
Il suo primo lungometraggio "Vagabondi" (1981) mostra con chiarezza  le sue tendenze narrative. L’operina (in 16 mm) viene segnalata nella "Rassegna nazionale dei filmaker” con notevoli elogi.
Anni dopo, l’incontro con la Sacher di Nanni
Moretti, al quale rimarrà per sempre riconoscente, darà vita a "Notte italiana" (1987) con M.Messseri, Giulia Boschi e R.Remotti.
La vicenda è incentrata sugli intrallazzi  in corso in un’area fabbricabile del Polesine: sono gli anni delle tangenti a destra, (centro) e a manca, con i gerarchi di partito pronti a far la cresta sulle transazioni o a chiudere un occhio se non due. (Altro che "bene comune" o "servire il popolo" (BUM!)).
L’opera successiva, "Il prete bello" (1989), è tratta dal romanzo di G.Parise. Ed è una rievocazione degli anni 30, con un don Gastone che ondeggia tra adesione al fascismo e compulsioni erotiche. Fenomeno che si ripresenta ad ogni successiva generazione.
Nel 1992, "Un’altra vita", con Silvio Orlando e Claudio Amendola, dà il quadro di una Roma pervasa dalla mania di far soldi ad ogni costo (e rischio).
La storia si svolge nella periferia del Tuscolano dove sono giunti anche molti profughi dall’Est, come la giovane polacca sfruttata
ignominiosamente dai due "pischelli".
Emergono così dei personaggi duri e bramosi di emergere della palude sociale in cui li ha scaraventati la sorte.
Il film otterrà la "Grolla d’oro" a St.Vincent.
Nel 1994, Mazzacurati gira "Il Toro", racconto di un affaraccio che due allevatori cercano di condurre a buon fine, per guadagno e vendetta.
Essi, infatti, si ritengono vittime di soprusi e vogliono vendicarsi sequestrando un toro da monta per venderlo, forse, in Ungheria.
Al di là dell’allegoria che qualcuno ha intravisto, la narrazione è avvincente per asciuttezza e originalità.
Interessante è la "comparsata" di A.Lattuada come favore ad un giovane e meritevole collega.
"Il toro" otterrà il Leone d’argento alla Mostra di Venezia.
Nel 1991, "Vesna va veloce" espone alcune amare verità sulla prostituzione e in particolare su quella delle ragazze che arrivano dall’est, in cerca di "miglior vita".
Vesna è una di loro e pensa che il meretricio possa essere un
modo facile per mettere da parte un bel gruzzolo prima di abbandonare tale sporco "lavoro" e dedicarsi ad un’esistenza meno umiliante.
Pertanto rifiuta l’affetto del muratore che vuole sottrarla alla schiavitù del marciapiedi notturno.
Il tono generale è misurato, quasi pudico rispetto alla nuda realtà dei fatti e gli interpreti, Silvio Orlando, A.Albanese e la quasi sconosciuta T.Zachova risultano assai bene inquadrati nelle loro dimensioni umane.
L’anno seguente, Mazzacurati dedica, da veneto a veneto, un esauriente documentario allo scrittore M.Rigoni Stern, alpino ed ecologista ante litteram, nonché veterano della campagna di Russia (1941-43).
Del 1998 è "L’estate di Davide", una specie di "bildungs-roman" di un giovane torinese che soffre la prima delusione d’amore durante una vacanza in Lombardia dove si è invaghito della graziosa Patrizia.
Qui la Bassa Padana è ritratta con campi lunghi di raffinata pittoricità e il ritmo pacato della "camera" è adeguato al
disteso e fluente paesaggio.
Nel 1999, "Conversazione senza testimoni" è, invece, la ripresa, per lo schermo, di un lavoro messo in scena a teatro dallo stesso regista.
"La lingua del Santo" (2001) è la storia di due amici che vivono a Padova di imbrogli e furtarelli finché non progettano il colpo grosso, impadronirsi -cioè- di una reliquia del "glorioso  Antonio" e chiedere il riscatto.
Gli sviluppi della vicenda sono divertenti e il finale del tutto imprevedibile...
Ottima la performance di F.Bentivoglio e A.Albanese, tra l’ingenuo e il furbesco, qualità mica assenti al Nord, come in tutta la penisola italiota.
Nel 2002 "A cavallo della tigre" rappresenta, secondo noi, un momento di relax (o di stanchezza?) ed è il rifacimento dell’ormai introvabile film di L.Comencini  (con gli inarrivabili G.M.Volontè e N.Manfredi). Ed è forse meglio sorvolare su tale "remake", altra moda odierna in evidente contrasto con quell’idea di "creatività" di cui pur si ciancia
a iosa.
Un’altra opera poco riuscita ci appare "L’amore ritrovato" (2004) da una novella di C.Cassola.
Una scommessa perduta nonostante la levità con cui è descritto l’intermittente adulterio.
L’ultimo lavoro di Mazzacurati è stato "La Passione" presentato a Venezia 2010 (dir.Q.Tarantino, tanto nomini?) e con una giuria fatta per tre quarti di incompetenti che, appunto, non hanno dato nessun premio alla pur ottima selezione italiana. Da ciò è conseguita una nutrita, e , stavolta, più che motivata polemica, da parte di Martone, Avati e altri validi autori.
Il film tratta di una vicenda un pò bizzarra ma non improbabile: un regista in crisi (Silvio Orlando) è ricattato dai suoi compaesani che vogliono, come risarcimento del danno apportato ad un affresco dalla negligenza del cineasta, che egli si impegni a mettere in scena la Sacra Rappresentazione annualmente realizzata nel piccolo centro toscano.
Sarà per lui una fatica fare recitare alcuni guitti di provincia, tra
i quali gli spassosi G.Battiston e C.Guzzanti che si prendono per divi e fanno la figura di ridicolissimi istrioni.
E’ quindi, una gustosa satira sul degrado caratteriale perfino in un piccolo luogo d’Italia, con bagarre, erronee ambizioni e buffi contrasti, al fine della "visibilità" (mania sempre più diffusa e spesso assolutamente risibile).
Stavolta, Mazzacurati mostra per intero la sua capacità di ampliare lo sguardo sul presente con graffianti osservazioni sul costume e scartando inutili piagnisterie e patetismi. Così pure, evitando oleografie e colori troppo teneri.
Perciò, nonostante ogni suo film riveli un piglio diverso, può dirsi che il profilo di consistenza generale presenta un’inequivocabile cifra personale.
Essa è in grado di stemperare la tendenza al crudo realismo in una ben circoscritta vena intimista, che attraversa quasi tutte le sue opere.
Siamo, cioè, oltre il solito abile mestiere da parte di uno che è partito con giusto equilibrio senza mirare
arrogantemente ad un subitaneo successo (ciò che oggi grava su parecchi esordienti nostrani).
E ha piena ragione Mazzacurati quando, come di recente ha fatto a Venezia, ha dichiarato: "... Il cinema italiano dimostra qui di esser vivo e vitale... il rischio, forse, è che a furia di parlar male di noi stessi, finiremo col convincere anche gli stranieri."