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J.L.GODARD: UN BILANCIO TRA IL SÌ E IL NO. |
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di Antonio NAPOLITANO
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Il 3 dicembre di questo 2010, J.L.Godard compie gli ottant’anni ed è, dunque, possibile stilare un bilancio della sua lunga attività registica. Essa si è svolta in due periodi quasi in contrasto tra loro, tra opere di ineguale impostazione e di diversa qualità. Personalità di indubbia cultura francese, il cineasta è nato, però, a Nyon, (Svizzera). Dopo i 14 anni ha studiato a Parigi (liceo Buffon) ed è entrato in contatto da giovanissimo con i Bazin, i Rohmer, i Truffaut. Pur collaborando ai "Cahiers du Cinéma", non è facile parlare di una sua piena adesione alla "Nouvelle Vague", rappresentata agli inizi da altri nomi (Astruc, Malle, Varda eccetera). Tornato temporaneamente in Svizzera,Godard vi ha girato un breve documentario ("Opération béton") ed alcuni "corti" di mero tirocinio. Il suo vero esordio avviene in Francia con "Fino all’ultimo respiro" (1959). Dal punto di vista del linguaggio, Godard segue le idee di Rossellini sulla tecnica del lavoro "per strada". Il contenuto, invece, non ha una netta cifra "neorealista" dato che la vicenda riguarda un ladro d’auto (J.P.Belmondo), braccato dalla polizia per aver investito un agente. L’americanina di cui egli si è invaghito è la deliziosa Jean Seberg (nella parte di Patricia). Lo stile del film ha una fresca scioltezza avvalendosi, di un agile montaggio a stacchi improvvisi ma non arbitrari. Più legato alla tradizione ma anche di più intensa drammaticità è "Questa è la mia vita" (1962). L’interprete è Anna Karina nella parte della commessa divenuta prostituta. Il suo "maquereau" entrerà in trattativa per "venderla" ad un gruppo di violenti magnaccia. E nel regolamento dei conti sarà proprio la ragazza ad esser colpita e uccisa. Il gioco dei bianchi e neri è di affascinante fattura e ricorda i toni di certi classici "gangster" alla Lang. Meno concluso appare "Le petit soldat" (1963) girato in Svizzera, una specie di thriller su trame spionistiche durante la "sporca guerra d’Algeria". Altrettanto disarticolato sarà "La donna è donna" forse omaggio alla bella Karina che Jean Luc ha da poco sposato. Più motivato e sorretto da un solido soggetto è "I carabinieri" (1963) dedicato a J.Vigo. Il regista si equilibra a sufficienza tra cose alla Brecht e alla Jarry con doti di vero trapezista. Una brillante svolta sarà operata con "Agente Lemmy Caution: missione Alphaville" (1965):Eddie Constantine è un detective inviato in una lontana galassia in cui un mega-computer dirige la vita degli abitanti mettendo al bando ogni genere di sentimenti. È da rilevare l’abilità del metteur en scène nell’utilizzare come extragalattiche le strutture luminose delle notti parigine. E l’opera risulta, nel complesso, una sorniona satira sul probabile avvenire delle nostre megalopoli affollate da mille cose varie. "Il disprezzo" (dal romanzo di A.Moravia) è una lodevole trascrizione di un testo, pur non essendo sulla linea del cineasta. B.Bardot se la cava benino e un intrigante fantasmatica apparizione la fornisce l’amato F.Lang. Intanto, "Pierrot le fou" ha rappresentato una serqua di avventure al limite dell’incredibile. In essa J.P.Belmondo si dà da fare nei modi talvolta di un clown stralunato talvolta di un paradossale eroe tragico. Il tutto appare una arrampicata sugli specchi "en guise de divertissement". Nel 1966, "Due o tre cose che so di lei", mostra la vita di una donna ridotta a semplice merce. Il ruolo è imprevedibilmente affidato a Marina Vlady, dall’aria casta e innocente, che qui deve impersonare -però- la casalinga che si prostituisce per portare avanti la famiglia. Il regista rivela, comunque, la sua capacità di far parlare gli oggetti, facendone dei simboli di una vita alienata oltre misura. Nel 1967, "La cinese " si presenta come il prodromo filmico del cosiddetto "joli mai", condito con il repertorio più banale dell’ideologia del tempo. In esso, il regista sembra equivocare per "coscienza rivoluzionaria" la sua febbrile impazienza e la sua cocente rabbia contro il mondo (fino al punto di voler dinamitare il Louvre(!)). Non si contano le sconnessioni tra immagini e parole e sconosciuti sono gli "interpreti" (tranne J.P.Leaud) dal disordinato bla bla su Mao, Foucault e con frasi da vicesceriffi western divenuti eversori parigini. In merito, si può sottoscrivere-senza rimorsi d’alcun genere-quanto chiosa lo storico L.Maltin: "A molti capiterà (di fronte a tale film) di annoiarsi a morte". Nello stesso periodo, invece, "Week-end" ha rivelato un discreto talento di sociologo visionario nel registrare i dannati ingorghi e i mille incidenti dei "giorni di festa". Godard sa qui portare a galla tutto il "malessere del benessere" prodotto dall’idolatria delle 4 o 2 ruote. Una strana nemesi sarà poi il suo incidente che lo terrà a lungo a letto in una corsia d’ospedale. Nel 1972 arriverà poi una interessante ripresa con "Crepa padrone, tutto va bene!" (interpreti Jane Fonda, Y.Montand e V.Caprioli). Il discorso scorre più liscio e senza stravolgimenti parafilosofici. Realistici appaiano i battibecchi tra i due intellettuali (o pseudo tali) e i responsabili della fabbrica che mirano al concreto. Qualche anno dopo, Godard è di nuovo in Svizzera a girare due o tre pellicole che non riuscirà a completare. Al contrario, ben rifinito appare "Sauve qui peut!(la vie)" (1969) che è un nostalgico ripensare ai temi dell’inizio, anche se con interventi non del tutto appropriati. Ancora una défaillance sarà "Passione" (1982) carico di digressioni e anacoluti. Nel 1983, "Prénom Carmen" è un efficace colpo d’ala su di un tema particolarmente sentito. La sigaraia assurge a simbolo della piena libertà erotica come valore supremo della vita. Comunque, è ormai evidente lo zigzagare del regista e ne è prova, nel 1984, "Je vous salue Marie", sofisticata parafrasi del mito dell’Annunciazione. che nel suo fondo, sedimenta il solito desiderio di "épater les bourgeois" e di suscitare polemiche a bizzeffe tra cinefili e non. Altra dissacrazione sarà quella del "Re Lear" (1987) pieno di inserti strampalati (le comparsate di N.Mailer, W.Allen, e dello stesso regista). (un ennesimo shakespearicidio!). "Nouvelle vague" (1990) è una sorta di "slalom tra nostalgie e rabbia" (annota lo stesso J.L.Passek). E nell’anno seguente i "J.L.G./J.L.G." è un bizzarro dialogo incrociato tra Jean Luc e se stesso (cioè l’anti-Malraux) cosa che ha ripresa nella recentissima autobiografia. Così è sempre più evidente l’astenia creativa di un autore in altro tempo pieno di inventività. Si comprende, allora, come Godard si dedicherà poi a montare una singolare "Storia del cinema per immagini" con un’angolazione soggettiva nella selezione dei testi e degli autori. E si può, infine, solo accennare a lavori come "Eloge de l’amour" e "Notre musique" (2004), che gli fanno piovere addosso rimproveri da ogni parte. E certo che Godard troppo sovente ha abbandonato la sua vena migliore. Così non pare infondato il duro giudizio dato da G.Fofi su quanto il regista sia stato danneggiato dalle "aberranti metafore e dalla "sconfortante irrazionalità". Per questi motivi, il bilancio da stilare non può non essere che di tipo algebrico, tra il più e il meno, tra il positivo del lavoro iniziale e il negativo dell’ultimo ventennio. Ciononostante, Godard resta una personalità del cinema d’oltralpe. Sicuramente non da essere escluso da quella schiera di valenti autori francesi che hanno firmato tante valide opere per gli schermi di tutto il mondo. |
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