Quando la politica muore esplode la rabbia disperata
 







Giovanni Russo Spena




La politica muore quando Alemanno, Maroni, Alfano attaccano la Magistratura che scarcera ragazzi e ragazze dando corpo all’ordine repressivo dello stato di eccezione permanente. La politica muore quando si continua, anche a sinistra, con una perniciosa coazione a ripetere, la litania della seconda metà degli anni Settanta, dividendo il movimento che lotta per il bene comune della conoscenza, tra "buoni" e "cattivi". La politica muore nell’atto in cui, con cinismo ipocrita, non vede la responsabilità di avere imposto, con la gabbia bipolare-bipartitica (voluta da Berlusconi, come da Fini, come da Veltroni), la scissione completa tra la mediazione istituzionale e il conflitto sociale. Di fronte alla ribellione generazionale, dobbiamo interrogare noi stessi, ascoltare, tentare di capire.
Liberazione lo sta facendo molto bene. Mi si chiede un parere. Con umiltà, pongo a me stesso tre problemi: penso, innanzitutto, che, dopo piazza del Popolo, le cui
dinamiche sono state ampiamente illustrate e documentate, possiamo ritenere che ci troviamo di fronte ad una vera e propria mutazione antropologica di decine di migliaia di ragazze e giovani; la quale da tempo viveva nei rivoli carsici dei movimenti sociali, dagli operai sui tetti e sulle gru alle lotte territoriali e che clamorosamente entra oggi in piena luce dopo una fase di accumulo di forze; niente di strano; non è stato sempre così nei movimenti storici che hanno segnato l’apertura dei cicli di lotta più complessi? Questo è il movimento dei beni comuni.
E’ stato giustamente detto che un fenomeno così contemporaneo, una ribellione generazionale che vive a Roma, come a Londra, a Parigi, ad Atene, in Canada (con le differenze marcate dai sistemi politici locali) appare, per paradosso, come un improvviso ritorno alle fasi migliori dell’Ottocento, della nascita del movimento operaio. Come avvenne per le leghe o per le cooperative, questi giorni vivono l’ambito della comunità
includente, dell’appartenenza, contro una statualità che è nemica. La mediazione politica giustamente appare, a questo movimento, lontana e ostile. Il potere è odiato perché appare con la putrescenza morale della compravendita e del mercato innanzitutto, che ricostruisce una maggioranza che subito approverà la controriforma Gelmini con i voti anche di Fini e Casini. Non è un’esercitazione goliardica, è rabbia disperata, maturata nelle assemblee, nei cortei, nell’autorganizzazione, sui tetti e sulle gru, dove è stato messo in gioco il proprio corpo per salvare l’esistenza.
Una generazione (forse due) che assume la consapevolezza di essere "no future", senza futuro, che irrompe clamorosamente sulla scena dicendo "il re è nudo"; il potere è lontano, esprime soltanto la sua faccia ferocemente repressiva e non ha, quindi, la dignità minima dell’interlocuzione.
In secondo luogo, a me è parso che il dato più interessante sia il tentativo di questo movimento di costruire nessi sociali
unitari; non l’omologazione coatta, centrista, politicista in un blocco sociale organico oggi non identificabile, ma la comunicazione fra le diversità, il lavorare insieme fra differenti esperienze unificate dalla pesantezza sociale del maglio della crisi, della globalizzazione liberista, che si comporta come vera e propria sovversione reazionaria dei ceti proprietari, predatori, della borghesia mafiosa.
E’ un punto che vedo poco indagato dai mass media; ma in piazza del Popolo martedì, come del resto il 16 ottobre, insieme a studenti e precari, vi erano Fiom, sinistre sindacali, sindacalismo di base, comitati di Terzigno, comitati per l’Acqua bene comune, occupanti di case, immigrati. Un abbozzo, insomma, di soggettività politica la quale non può essere usata per operazioni politiciste o come bacino elettorale o come campo di delega a operazioni plebiscitarie attraverso le primarie.
Il progetto di liberazione non deve essere esterno, ma più che mai vivere dentro la fase di
conflitto sociale che si è aperto. Il lavoro dei compagni sulla intuizione del "partito social" mi sembra non solo sempre più attuale, ma un paradigma fondativo; altrimenti saremo anche noi bersaglio di una rabbia disperata (e si sa che la disperazione è, a volte, anche cattiva consigliera).
Dobbiamo evitare, in terzo luogo, di comportarci come il partito che fa da grillo parlante, che pretende di dettare la strategia. Non rinnego il nostro ruolo politico, anzi lo esalto, avendo coscienza che, oggi, non vi è forma organizzata (né partiti, né movimenti, né reti, né tantomeno circuiti plebiscitari) che sia autosufficiente. Occorre tessere pazientemente, federare le diversità, costruire nessi unitari, lavorare insieme, mettendo a tema (questo sì) il passaggio dalla ribellione generazionale al progetto anticapitalista (Mario Monicelli avrebbe detto, con Marx, alla "rivoluzione").
I principi fondamentali sono la difesa intransigente della Costituzione, i beni comuni, dal lavoro che
libera se stesso alla formazione pubblica, alla necessità di criticare, nella maniera più radicale, il concetto stesso di sviluppo attraverso la discussione sulla decrescita. Il monetarismo dell’Unione europea, nelle prossime settimane, colpirà drammaticamente, con l’impoverimento di massa di una generazione che è stata succube della propaganda consumista. Viene abbattuto lo stato sociale a cui corrisponde la dilatazione dello stato penale e globale; i poteri dominanti non vogliono dare altra risposta che la repressione, il presidenzialismo, le "zone rosse" sempre più estesi.
Marchionne abbatte la contrattazione nazionale per eliminare l’idea stessa di sindacato di classe, trasformandolo in gestione di enti bilaterali per il mercato del lavoro della precarietà. Gramsci diceva che, in tal modo, i sindacati diventano segmenti dello "stato allargato". Non possiamo ripetere l’errore fatto dopo Genova, quando l’efficacia del conflitto fu ricercata nella rappresentanza istituzionale, nel
governismo. Il conflitto ha una sua intrinseca politicità, che non ammette la dialettica banale della rappresentanza tradizionale. Occorre essere compiutamente al suo interno, qualificando temi discriminanti come i comitati unitari contro la crisi, la ricostruzione di legami sociali, una nuova confederalità dal basso (nuove "case del popolo", autorganizzazione del corpo sociale); a partire dalla mobilitazione immediata per lo sciopero generale.