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E’ il tempo della politica, non delle bombe |
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La Libia sta sprofondando di in ora in una guerra civile. Le divisioni fra clan e tribù, quelle geografiche e quelle politiche interne allo stesso regime sono fra le cause del conflitto in corso. Divisioni che evidenziano tanto il fallimento del regime e del suo tentativo di costruzione di uno stato nazione, quanto il suo collasso secondo quelle che erano e restano le prevalenti strutture sociali che regolano la società libica, ovvero quelle di appartenenza tribale e di clan. Le ultime notizie che arrivano dal Paese, oltre a raccontare l’esodo dei profughi egiziani e tunisini, parlano di un Gheddafi che ostenta sicurezza, sfida i suoi oppositori interni ed internazionali e sferra una controffensiva con le forze a lui leali per riconquistare città in mano ai ribelli. Dato troppo presto per spacciato, anche grazie ad un fuoco di fila mediatico che ha avallato delle vere e proprie fanfaluche, quali quelle di una Tripoli prossima a cadere nelle mani degli insorti, il raìs ostenta sicurezza e minaccia, accusa, come il Ministro Maroni, Al Qaeda e le potenze occidentali ed estere di essere dietro la rivolta. Si tratterebbe di un caso alquanto curioso di convergenze parallele. Mentre l’assemblea delle Nazioni Unite e il suo consiglio di sicurezza prendono posizioni di condanna dell’azione repressiva del regime, le potenze imperialiste si dividono sul da farsi. Ma quello che finora è emerso è una preoccupante e netta propensione a voler intervenire militarmente nella contesa. Un’avventura militarmente e politicamente folle, che malgrado sembri allontanarsi per la sua problematicità, solletica diversi, dai mai domi neocons statunitensi fino al Primo ministro britannico, forse ansioso di rimettere le mani sul petrolio libico. E’ questo che preoccupa più di ogni altra cosa le cancellerie di mezzo mondo. Chi controllerà il petrolio e il gas di quel paese. E questo spiega anche il perché di tanta attenzione e solerzia nel prepararsi anche all’opzione militare. Il Governo Italiano, senza colpo ferire, è passato nel giro di pochi giorni dal tacito sostegno a Gheddafi a megafono delle potenze angloamericane. Una inversione di rotta che dimostra l’assenza di una strategia politica, l’assoluta inadeguatezza politica e di autorevolezza per poter tentare di giocare un ruolo nella cirsi libica. L’unica preoccupazione della squalificata compagine di governo italiana è oggi quella di assecondare le paure dell’esodo dei profughi e di utilizzare a fini interni l’emergenza umanitaria. La rivolta contro Gheddafi e il suo regime personal-clanistico, pur nella sua particolarità, è anch’essa frutto delle sommosse e delle rivoluzioni che coinvolgono tutta l’area sud del mediterraneo e i paesi del medio oriente e del golfo persico. Le sue ragioni sono sacrosante. Il fatto che vi sia chi cerca di utilizzare questi movimenti a proprio vantaggio, non dimostra un presunto carattere eterodiretto delle sollevazioni contro Gheddafi. Sarebbe strano il contrario, ovvero che gli attori della politica internazionale fossero semplici spettatori di quanto accade senza cercare di volgere a proprio favore gli eventi o possibili scenari futuri. Lo striscione esposto dai ribelli di Bengasi in cui campeggia in Inglese la scritta « No all’intervento straniero, il popolo libico può farcela da solo», manda a dire come chi combatte Gheddafi non abbia alcuna voglia di farsi arruolare in “guerre umanitarie” da molti evocate. Ma per evitare che attraverso l’emergenza umanitaria venga giustificata una qualsivoglia idea di intervento militare, occorre non solo dichiararlo, ma proporre scenari diversi che possano sbloccare una situazione quanto mai incerta. Per questo crediamo necessario che si sviluppi un’iniziativa politico internazionale che sappia, nelle prossime ore, aprire alternative all’invio di marines. Difronte all’acuirsi della guerra civile e della non improbabile disgregazione territoriale e politica della Libia, cosa saggia sarebbe quella di cercare di fermare questa spirale. Ciò comporta che si metta in campo un’iniziativa diplomatica con l’invio di una missione politica di mediazione fra le parti in conflitto in grado di fermare repressione e guerra civile e di aprire ad una transizione che risponda alle domande di democrazia e di liberazione dal regime che sorgono dal popolo libico, nel suo unico ed esclusivo interesse. Un’iniziativa che veda protagonisti non le potenze coloniali, ma paesi altri rispetto a chi ha non altro interesse che quello di arraffare pozzi e contratti. Se esistesse l’Europa, essa potrebbe candidarsi a farlo, ma come da tempo diciamo, questa condizione non è data. Alcuni, tuttavia, lo hanno proposto in questi giorni. Sarebbe utile non lasciare cadere questa idea. Fabio Amato |
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