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-Macché cinema!A me basta la salute-
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Attico di un albergo romano al centro. Si domina la città. Siamo a tavola con Anthony Hopkins. E la prima - a dir la verità seconda - frase che ti dice è: «se vuoi dire una cattiveria gratuita, l’intervista è finita». E allora non puoi non pensare che lui un tempo ha avuto un amico a cena, che non lontano un cameriere potrebbe sempre servirgli un Chianti e che con quell’Hannibal Lecter ha vinto l’Oscar come miglior protagonista. Stabilendo, peraltro, un record: compare in soli 16 minuti de Il silenzio degli innocenti, ma per il suo carisma sono stati sufficienti. «Adoro ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo». Non vincerà di sicuro la statuetta per Il Rito (uscito ieri in sala per Warner), dove è Padre Lucas, esorcista e indemoniato. Più thriller che horror, si indaga sull’ateismo e sul demonio, tra Roma e Firenze. Sir Hopkins, torna in Italia dopo un quarto di secolo. Le piace ancora? Fortunatamente l’Italia non cambia, è sempre molto bella. E’ passato tanto tempo da quando feci Galeazzo Ciano per Alberto Negrin e ricordo la grande professionalità sua e degli attori. Come mi è successo ne Il Rito. Tornerei volentieri più spesso, è un posto meraviglioso e si fa grande cinema. Di quella esperienza ricordo soprattutto un evento quasi incredibile: ci fecero girare nei veri uffici del Duce a Palazzo Venezia e Bob Hoskins, che lo interpretava, si mise pugni sui fianchi e petto in fuori sul balcone. Volevano linciarlo. Ci siamo già incontrati per "Slipstream", il suo film da regista, a Locarno. Pensa di tornare dietro la macchina da presa? No, direi di no. E’ stata una bella esperienza, era un film molto particolare. Anche troppo. Nasceva da quel particolarissimo trip che avviene quando sei in punto di morte e proseguiva come viaggio allucinato nella vita e soprattutto nella mente di un uomo. Molti di voi (critici? giornalisti? rompiscatole? La terza, a giudicare dal tono - ndr) lo hanno apprezzato, altri stroncato. Mi risulta faticoso fare il regista: devi controllare tutto, devi avere la capacità di far muovere un meccanismo enorme e complesso, devi essere il primo ad arrivare sul set e l’ultimo ad andartene. Un po’ troppo per me, non ho il sacro fuoco dentro, piuttosto mi diverto con il mio lavoro. Sarà anche che più va avanti e meno le va di discutere e sacrificarsi? E’ anche questo. Mi viene in mente un bellissimo film a cui ho partecipato, Bobby (era straordinario nel ruolo-cammeo di commentatore del presente dall’alto di una saggezza dimenticata e dal basso del suo lavoro nell’hotel in cui uccisero Bob Kennedy - ndr). Se penso a come i produttori ci hanno torturato, a quello che Emilio Estevez ha dovuto sopportare da loro ogni giorno, mi rendo conto che spesso ti viene chiesto molto più di quanto sei disposto a dare. Si comportavano come dei gangster. Solo ieri ho rifiutato cinque film. Non perché fossero brutti, anzi. Ma avrei dovuto passare cinque mesi tra Uzbekistan, Marocco, Londra e Monaco e stare lontano dalla mia famiglia. Perché avrei dovuto? E’ sempre stato così, per lei? Solo un bel lavoro? No, non scherziamo. La recitazione ha rischiato di bruciarmi, come tante altre cose nella mia vita, buone e cattive. Sono arrivato a un passo dal rompermi la schiena, non avevo limiti. E non l’ho fatto a 20 anni, ma a 60! Per me questo lavoro è sempre stato un misto di rabbia e di amore. Ho iniziato per contrastare i bulli (era dislessico e in quanto tale spesso emarginato - ndr), poi ho scoperto la bellezza di quest’arte, di esprimersi e cambiare continuamente. Ovviamente, però, invecchiando diventi più saggio, o almeno più prudente. E capisci che la salute è più importante, che non devi farti consumare, devono cambiare le priorità. E arrivano anche altre passioni: la famiglia o la musica. Stanno per musicare un mio valzer e ne sono molto felice. Il Rito parla anche di questo, è anche il romanzo di formazione di ragazzi che fanno delle scelte, di una guerra tra sentimenti, emozioni diverse, anche nella stessa persona. Una battaglia che può essere a volte molto violenta. "Il Rito" è anche un film sul soprannaturale, religioso e non. Lei che rapporto ha con ciò che non si può spiegare? I miei sono atei, ma confesso che io, come molti, sono dovuto venire a patti con ciò che non riusciamo a spiegarci. E così a 73 anni ho placato un po’ della mia inquietudine, anche se non posso dirmi un uomo spirituale. Il male esiste e va combattuto con le proprie scelte. In ogni caso diffido da chi ha la verità in tasca, che sia religiosa, politica o personale. Confessi: fare l’attore è un po’ esorcizzarsi? Fare l’attore è un po’ come esorcizzare chi guarda e forse anche se stessi. O meglio le tue paure, i pregiudizi degli altri. Ricordo sempre Marlon Brando che diceva: «Non posso credere di dover passare ogni giorno della mia vita con quegli esseri limitati che sono gli attori. E lo dice imitando, alla perfezione, la voce del "Padrino". Nella sala ridono tutti, lui si gode il successo e fa una pausa. Ride. E ricomincia. Imita Woody Allen, sul set del suo ultimo film. Un’ovazione. Chi l’avrebbe mai detto che stare a tavola con Hannibal Lecter sarebbe stato così piacevole? Boris Sollazzo
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