Napoli, da modello a discarica all’ospedale del mare
 











Una discarica a cielo aperto. Così hanno ridotto l’Ospedale del Mare. Basta allungarsi fino a Ponticelli, zona orientale di Napoli, e scegliere su quale bruttura fissare gli occhi. Sugli orrendi palazzoni costruiti dopo il terremoto del 1980, oppure sui canaloni che circondano l’ingresso dell’ospedale zeppi di montagne di copertoni, frigoriferi, tv, colline di stracci e rifiuti vari.
Ogni notte, ci raccontano, arrivano i camion, entrano nella strada laterale che separa le nuove costruzioni del nosocomio e scaricano. Ci dicono pure che sotto quei copertoni mettono di tutto: bidoni di vernice, materiali tossici, rifiuti speciali. Veleni, insomma. L’Ospedale del Mare è uno scandalo enorme. Eppure nel 2004 fu pensato e progettato come il nuovo modello dell’edilizia ospedaliera. Una vera e propria città che si estende su una superficie di 145.800 metri quadrati, dove ammalati e familiari potranno trovare di tutto, dall’albergo al centro commerciale,
parcheggiare comodamente (1300 sono i posti auto), curarsi con tecniche d’avanguardia in 18 sale operatorie e aspettare la guarigione in 451 posti letto. Insomma, la vera cura per la disastrata sanità napoletana, un miraggio per i cittadini oggi costretti ad aspettare il loro turno sulle lettighe nei corridoi di “lazzaretti” che si chiamano Loreto Mare, Ascalesi, San Gennaro e Incurabili.
Questo nelle promesse che assessori e politici del vecchio centrosinistra andavano sbandierando in ogni conferenza stampa e campagna elettorale. Per sapere come è andata basta fare una tappa a Ponticelli e fermarsi davanti all’ingresso. “Il cantiere è chiuso”, ci dice un vigilantes. “E 200 lavoratori edili sono in mezzo a una strada, senza prospettive”, aggiunge Ciro Nappo, segretario della Fillea-Cgil. “È che qui tutti hanno mangiato, imprese concessionarie, subappaltatori, funzionari e politici”, taglia corto uno degli operai buttati in mezzo a una strada. I finanziamenti dell’Ospedale del Mare
dovevano essere messi in parte dal pubblico, la Regione, e in parte dal privato, la Astaldi capofila di un gruppo di imprese. Investimento previsto nel 2004 187 milioni, quota pubblica 57%, quota privata 43%. Astaldi e Osmar (il raggruppamento di imprese vincitrici dell’appalto) si erano impegnate a consegnare i lavori nel 2008-2009, in cambio avrebbero gestito per 25 anni tutti i servizi della mega-struttura. Un grande business. Finito male. Con la chiusura del cantiere e una inchiesta del pm Giancarlo Novelli che ha coinvolto 12 persone tra funzionari della Regione e dell’Asl Napoli1, manager e responsabili delle aziende.
Novelli ha indagato per mesi sul miracolo delle varianti che hanno provocato modifiche del progetto iniziale (sale operatorie costruite e poi abbattute) e una lievitazione strepitosa dei costi, e ha scoperto cose folli. Alla fine è tutto fermo, con un braccio di ferro tra imprese e Regione su chi debba metterci i soldi. Ma quanto costerà alla fine l’Ospedale del
Mare? “Servono almeno altri 48 milioni di euro per finire l’opera”, secondo le stime del dottor Ciro Verdoliva, il commissario delegato dalla Regione per sbloccare la matassa. “Non meno di 258 milioni di euro”, denuncia invece l’europarlamentare Enzo Rivellini. “Sappiamo per certo che per concludere i lavori è necessaria una variante che costerà 56 milioni, inoltre sono aperti contenziosi per gli espropri non inferiori ai 9 milioni, inoltre per la vertenza in corso tra imprese private e pubblico sono in ballo altri 74 milioni e 282 mila euro, aggiungiamo il costo delle attrezzature biomedicali che dovranno essere acquistate, altri 48 milioni, il fatto che le imprese vogliono far scendere la loro quota di investimento da oltre 91 milioni a 20, quindi i 70 milioni di differenza dovranno essere coperti dal pubblico, ed è presto fatto: servono altri 258 milioni”.
Ma c’è uno scandalo nello scandalo, più inquietante delle ruberie e del pressappochismo che hanno provocato il raddoppio dei
costi iniziali: l’Ospedale del Mare è stato costruito ad appena 8 chilometri dal Vesuvio.
“In spregio alle più elementari norme di sicurezza, in zona gialla, a 100 metri dalla zona rossa, quella di massimo rischio di eruzione”, denunciò già nel 2009 la senatrice radicale eletta nel Pd Donatella Poretti. “La delimitazione della zona rossa (con divieto assoluto di costruzione) e di quella gialla (zona a pericolosità differita da evacuare in caso di disastro) è stata realizzata seguendo i confini amministrativi solo per esigenze logistiche e operative, essendo aree effettivamente a rischio”. La senatrice ha presentato interrogazioni parlamentari al governo, lanciato appelli alla Protezione civile, alla Commissione grandi rischi e all’Istituto nazionale di vulcanologia, “ma tutto tace”. Franco Ortolani, ordinario di geologia dell’Università di Napoli , ha messo nero su bianco i suoi allarmi. “Il limite della zona rossa non è stato tracciato in base a criteri scientifici. La zona
dell’Ospedale del Mare è al di fuori della zona rossa in base ad un mero criterio amministrativo, non lo è, di fatto, in relazione alla reale distanza raggiunta dai flussi proclastici distruttivi nella zona di Pompei con l’eruzione del 79 dopo Cristo. Ma basta ricordare gli effetti ambientali dell’ultima eruzione vesuviana del 1944 che fu una delle meno devastanti, per avere una idea di cosa possa significare la sicurezza della struttura sanitaria alle falde del vulcano”. Ma non è solo il Vesuvio a preoccupare, l’ospedale “è stato costruito – continua il professor Ortolani – a circa 4 chilometri di distanza sottovento rispetto al previsto inceneritore e a una centrale elettrica funzionante. Come è noto questi impianti disperdono nell’atmosfera particelle di vario tipo che saranno poco salutari per i futuri ricoverati”.Il Fattoquotidiano-Enrico Fierro