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Sull'ultimo treno primo della Grecia |
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di Antonio Massari e Gagliano Del Capo
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Italia, fine corsa, ultima stazione ferroviaria della penisola. Qualche coordinata: siamo a due passi da Santa Maria di Leuca, che è già Mediterraneo ed è pure «finis terrae», la fine della terra. Qui le coordinate sono anche sonore: dalla radio dell'automobile ci siamo sorbiti una sfilza di sirtaki belli tosti, tendenzialmente moderni, metà pop e metà disco music: insomma, tipo Zorba il greco che se la spassa in discoteca. Poggiamo il bagaglio sull'asfalto asciutto: nonostante le piogge, tra le nuvole è spuntato un bel sole salentino che ti riscalda e sa un po' di primavera, mentre intorno i fichi d'india, verdi e senza frutto, se ne stanno schierati, in fila e sull'attenti, come fosse una parata militare. Ma che siamo alle pendici del paese ferroviario, qui non lo capisci solo dai fichi dal cielo o dalla terra: lo capisci sul piazzale dei binari, quando ci trovi la lavagna di un metro per settanta, con la cornice in legno stile scuola elementare, dove qualcuno ha scritto col gessetto: «Gagliano, 5 gennaio». Sarà un modo per non perdere la bussola. Chissà. Di certo è il segnale che la tecnologia è tutta qui: benvenuti a bordo delle Ferrovie Sud Est. Lo slogan potrebbe essere: più veloci di una diligenza. Forse. Giudicate voi: un'ora e quaranta per sessanta chilometri di percorrenza. Dovessimo tessere l'elogio della lentezza, saremmo nel posto giusto. Idem se volessimo costruire un monumento alla pazienza dello studente o del lavoratore pendolare. E anche riguardo la poesia della strada ferrata, bisogna ammetterlo, siamo ai massimi livelli: basta guardare quelle cinque leve accanto alla lavagna, sulla sinistra, tutte con maniglia e freno, come i manubri di una vecchia bicicletta. Cinque leve bene oliate, s'intende: per scambiare i binari, rigorosamente a scartamento ridotto, che sono tre. E che siano tre, i ferrovieri di Gagliano, ce l'hanno scritto sul nastro adesivo, attaccato alle manopole, che invece somigliano tanto a un cavatappi. E infatti si tirano: binario uno, binario due, binario tre. E poi su e giù a smanettare. Come i ferrovieri d'altri tempi. Ferrovieri: bella parola. Autoferrotranvieri Intanto, qui, di ferrovieri non ce n'è neanche a pagarne. Tutti assunti con un contratto autoferrotranviario, che è un'altra cosa: l'equivalente dell'autista di una metropolitana o di un pullman di linea. D'altronde, pare che il progetto di trasformare le Fse in una grande metropolitana a cielo aperto, sulla carta, sia già bello e pronto. Comunque, chiamarli ferrotranvieri, almeno per ora, non è una cosa simpatica: sui binari vedi locomotori e automotrici, mica un parcheggio d'autobus di città. Certo, un po' vecchiotti lo sono. Prendiamo quel bel locomotore bianco rosso e blu, sul secondo binario. Carino lo è di sicuro, con quei due fanali laterali, tondi tondi, che fanno tanto un look da Fiat Seicento anni Sessanta. L'età non la conosciamo, ma è un'automotrice Fiat con un paio di vagoni a seguito. Qui la chiamano «bi-nato». Dato il contesto, pensiamo che sia morto e poi resuscitato, ma innanzitutto c'è poco da fare gli spiritosi, e poi precisano che trattasi di termine tecnico. Per una quindicina d'anni l'hanno presa in affitto. Ora pare che se lo siano comperata addirittura. Per fortuna, da qualche tempo, i locomotori Man li hanno messi a riposo. Ed era pure ora, visto che risalivano al 1943. Poi c'è lei, la Breda arancione. Uno spettacolo. Innanzitutto, vagone unico. Poi: interni in similpelle marrone, scompartimento a cinque file divise per due, dove trovi posto su una sorta di divanetto biposto - ma volendo ci stringe anche in tre - dall'intelaiatura in ferro smaltato di verde. Sul portabagagli ci puoi mettere una busta della spesa, al massimo uno zainetto da quinta elementare. Non di più. Fa ancora il suo dovere, la vegliarda: quarant'anni - e li dimostra tutti - ma va su e giù senza fermarsi mai. O quasi. Qualche volta si ferma, come racconta Franco, il capotreno: dovrebbe ricevere un'indennità solo per le lamentele che è costretto a sorbirsi, ogni santo giorno, dai pendolari e dagli studenti. Non è colpa sua se questi treni di tanto in tanto si fermano, se fanno ritardo una corsa sì e l'altra no, se non circolano la domenica o nei giorni festivi, se da dieci anni mancano le coincidenze con la stazione di Lecce - che poi, per capirsi, è quella che ti porta nel resto d'Italia. Insomma, uno si sbobba un'ora e quaranta di treno, partendo da Gagliano del Capo, per arrivare a Lecce, e poi non trova la coincidenza per il treno che gli serve? «Sì - ammette Franco il capotreno, è così da almeno dieci anni». Pare che tra Fse e Trenitalia non ci sia verso di mettersi d'accordo, e a rimetterci sono sempre i passeggeri. Intanto s'avvicina Valentino il macchinista: «Per noi macchinisti», dice, «questo è un percorso di guerra: ci tocca stare all'erta a ogni passaggio a livello, perché alcuni sono addirittura incustoditi, altri hanno solo dei segnalatori acustici e visivi, e poi in alcuni momenti, tra l'altezza delle case e della vegetazione, finisce che non vedi niente». E infatti ogni tanto arriva la tragedia. Tre anni fa un treno prese in pieno un'automobile, provocando morti e feriti. Un paio di mesi fa, di nuovo: per fortuna l'automobilista è riuscito a salvarsi restando però ferito gravemente. Ma cosa manca, chiediamo, per trasformare questo percorso di guerra in una normale tratta ferroviaria? Lo schema è semplice: i punti sono tre. Punto uno: «Più treni, almeno sei in più, rispetto alle 18 automotrici e ai tre locomotori che abbiamo attualmente a disposizione». Non parliamo di miglioramento del servizio. «Diciamo che in questo modo possiamo garantire l'efficienza del servizio che vorremmo offrire oggi». Un esempio: se vuoi viaggiare da Casarano a Gallipoli, o da Maglie a Otranto, a un certo punto devi scendere e proseguire con l'autobus, perché di treni a disposizione non ce sono». Punto due: «L'ammodernamento dei binari: quelli che vede qui a Gagliano sono del 1950». Si saranno un po' consumati. «E certo che si sono consumati, te ne accorgi in curva quanto si sono consumati. E le traversine? Queste assi in legno sulle quali sono fissati i binari? Risalgono alla fine dell'800. Per fortuna un ammodernamento, almeno in parte, lo stanno realizzando». Punto tre: «Abbiamo bisogno di passaggi a livello automatici: non possiamo mica stare sempre a controllare che non passino le automobili». Bene, alle 15,15 partiamo: direzione Lecce, stazione centrale. Il controllore chiede a chiunque salga, tranne alle facce conosciute: «Dove scende?». Il motivo non è difficile da capire: se non c'è nessuno che scende a Tiggiano, per esempio, è inutile fermarsi - a meno che non ci sia qualcuno che voglia salire - e in qualche modo si guadagna tempo. Inutile sottolineare che viaggiamo su un binario unico. E questo comporta qualche conseguenza. Per esempio: stazione di Tricase, ci fermiamo e aspettiamo dieci minuti interi. Scende il macchinista, il capostazione, il controllore. Scendiamo anche noi. Tutti giù per una pausa di durata imprecisata: bisogna aspettare il treno che arriva in senso contrario, cioè da Lecce, perché, essendoci un unico binario, siamo tutti intenzionati a evitare la collisione. Nove ore e mezza sul regionale Nel frattempo, seduta alla panchina, sotto una lavagna dove hanno scritto col gessetto: «Tricase, 5 gennaio 2006», c'è la signora Fidalma Marseglia. Ti fulmina con lo sguardo. Il fatto è ch'è arrivata a Tricase partendo da Troia, paesino in provincia di Foggia, per trovare sua figlia che è in ospedale. Voleva solo viaggiare all'interno della sua regione, mica arrivare a Parigi, ma è salita su un treno alle 5 del mattino ed è arrivata a Tricase alle 14,30. Nove ore e mezza, grazie al micidiale mix fra Trenitalia e Fse. Intanto arriva il treno che ci lascerà il binario libero: baffetti bianchi, il macchinista sporge la testa dalla cabina del suo Ad-45, saluta e passa via. Possiamo ripartire. E riepiloghiamo: qui alle Ferrovie del sud est, chi arriva prima aspetta l'altro, quindi il ritardo è matematico, anche se rispetti la tabella di marcia. E se lo beccano sul groppone i passeggeri, che - se fosse il caso di precisarlo - spesso e volentieri sono imbufaliti. Ma così va la strada ferrata, al di là di Lecce. Di studenti, alla vigilia dell'Epifania, qui in treno ne troviamo pochi e ci assicurano che il pendolarismo gli rende la vita un inferno. Alla fine scendiamo da questo prodigio dell'alta tecnologia: Lecce, stazione centrale. Scusi, chiediamo al controllore, ma quanto ritardo abbiamo accumulato? «Una ventina di minuti». Non c'è male, pensavamo peggio. Nell'ufficio del bigliettaio leggiamo: «S'informa la gentile clientela che fino al 4 giugno, per lavori sul tratto Novoli-Carmiano, la circolazione è interrotta dalle 0,00 alle 24,00. Per il suddetto tratto saranno garantite delle corse automobilistiche in coincidenza con gli orari previsti». Corse automobilistiche. Ci incamminiamo verso l'uscita e sul primo binario troviamo un bel cartellone azzurro, non esageratamente grande, con la faccia di un omino un po' spelacchiato che sorride, un sorriso da venditore, uno di quelli porta a porta, che, pressappoco, dice così: i cantieri sono al lavoro, le grandi opere avanzano. E poi conclude: «Forza Italia. Andiamo avanti». E infatti andiamo, che c'è un capotreno che fischia.da Il Manifesto
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