|
| |
| |
L’Iran della libertà soffocata film che bucano la censura
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Ogni festival internazionale che si rispetti deve avere il suo "momento Panahi". Uno spazio di più o meno sentita commozione e impegno politico, volto all’estemporanea sensibilizzazione sull’assenza di diritti civili, tra cui libertà di parola ed espressione, in Iran oggi. A livello simbolico, lo scorso febbraio il festival di Berlino aveva tenuto una sedia vuota, tra quelle dei giurati, proprio per Jafar Panahi, recentemente condannato a sei anni di carcere e venti di divieto dell’uso della macchina da presa. Sullo stesso piano, l’altro giorno, in apertura della Quinzaine des Realisateurs, una ben poco scontata Agnes Varda ha estratto dalla sua marypoppinsiana borsetta un finto piccione viaggiatore da accoppiare alla Carrosse d’or, tradizionale premio della Quinzaine, che quest’anno potrebbe, se il piccione arriverà mai a destinazione, finire proprio tra le mani di Panahi. Invece, sul piano delle immagini rubate che hanno superato la censura iraniana, Cannes ha fatto di più. Se Berlino ha premiato con l’Orso d’oro l’ottimo Nader e Simin, una separazione di Asghar Farhadi, qua sulla Croisette potremo vedere, mercoledì prossimo, fuori competizione, In film nist, settanta minuti sostanzialmente autobiografici di un Panahi casalingo in attesa della sentenza di condanna. Film giunto ai selezionatori cannensi su una chiavetta usb. Da un semplice dvd è invece finito tra i film del Certain Regard, Bé Omid è Didar, diretto dal trentasettenne Mohammad Rasoulof, condannato assieme a Panahi a sei anni di prigione, ma senza la proibizione di fare cinema. Diciamolo forte e chiaro, allora, ai censori dell’ayatollah: stavolta vi è sfuggito qualcosa di davvero eclatante. Rasoulof immerge lo spettatore in un clima oppressivo, cupo ed anomico, ancor prima che si dipani il racconto della giovane donna, sospesa dalla professione di avvocato, costretta a vivere da reclusa in casa, visto che il marito giornalista vive in semiclandestinità da qualche parte nel sud del paese a causa della chiusura del suo giornale. Con Bé Omid è Didar va in scena la cultura della proibizione e della paura, l’istinto meschinamente istituzionalizzato di cancellazione della libertà e del desiderio del singolo in questo terrificante Iran degli orrori: computer e telefonini nascosti nel sottotetto, perquisizioni improvvise, infinite lungaggini burocratiche per qualsiasi tipo di atto. La protagonista, inoltre, non può nemmeno compiere, se non con la presenza del marito, i gesti più banali per una donna di oggi: prendere una stanza d’albergo da sola, come fare un’amniocentesi. Perché sfortuna vuole che oltre ad essere senza marito, ad essere guardata a vista dalla polizia segreta, la donna è anche incinta. Così, proprio come quella tartarughina che alleva nel box dell’ingresso di casa che, comunque lo si allarghi, continua ad essergli stretto, la donna cerca di fuggire dal paese. Ma qui sembra di vedere l’Argentina di Videla o il Cile di Pinochet. Nulla si salva in questo film, né la protagonista, né la sua speranza di fuga o di diventare madre, chiusa dentro una casa, una stanza, una città, un intero paese, svuotato da ogni colore, pulsione vitale, guizzo umanitario. Speriamo che questo film faccia il giro del mondo. Davide Turrini |
|
|