SPERANZE E SOGNI DELUSI NEL TERZO MILLENNIO.
La necessità della celebrazione, anche nelle nostre Puglie, della ricorrenza della proclamazione dell’Unità d’Italia.
 







di Emilio BENVENUTO




Le odierne delusioni e sofferenze sono frutto della convinzione radicatasi nel nostro spirito, dal tempo in cui udivamo esporre dalla viva voce di autentici “maestri” le grandi linee della politica che avrebbe potuta essere svolta dal risorto nostro Stato: collaborare al ristabilimento di quello che allora si chiamava “concerto europeo” e metterlo a frutto per ricostruire o ammodernare e rafforzare  le nostre strutture produttive, finanziarie e sociali, Nel pensiero di quei “grandi”, profondi studiosi di economia politica, si sarebbero dovute in pari tempo riattivare le antiche correnti culturali e commerciali coi popoli mediterranei, collaborando alla loro rinascita, man mano che venivano allentandosi le pastoie loro imposte dal dominio coloniale. Questo divenne presto il sogno della gente di una regione, quella  pugliese, protesa, più d’ogni altra italiana, verso l’Oriente.
Era, per il nostro Paese, allora impegnato nella salvaguardia
della propria unità nazionale, la via per prepararsi a svolgere, in aderenza agli ideali del Risorgimento e della Resistenza,  una sua specifica politica, non più di velleitaria Ggrande pPotenza, man mano adeguandola al potenziamento delle proprie risorse.  Era una politica di collaborazione internazionale, fatta di intese politiche con gli altri Paesi europei e mediterranei, per il mantenimento della pace e di accordi culturalie ed economici con popoli che avevanssero da poco riacquistato la propria indipendenza nazionale o che si avviavano a raggiungerla.
Ci colpì penosamente, più tardi, la discontinuità della nostra azione. Essa era l’antitesi di quelle equilibrate vedute che, come abbiamo purtroppo visto, gli stessi uomini politici trovarono difficoltà ad attuare per l’opposizione delle ondate  tanto neo-marxiste che neo-capitaliste. Si chiedeva la contemporanea applicazione di princìpi internazionali tra loro in contrasto. Si voleva modellare la nostra politica
su quella di altri Stati e non si teneva conto che, dato il nostro recente recupero della  unità nazionale, ci era mancato il tempo per accumulare, come andavano facendo il Benelux, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna,  i mezzi materiali necessari a una politica di potenza industriale e per radicare nella nostra opinione pubblica, come lo erano in quelle giapponese o nord-americana, le linee maestre di una politica rispondente a nostre specifiche  aspirazioni e possibilità, legate entrambe alla posizione geografia del Paese e alla sua storia.
La convinzione che per individuare i fini propri alla nostra politica fosse necessaria una chiara consapevolezza delle nostre caratteristiche e delle nostre attitudini si era confermata nello spirito delle nuove generazioni dopo gli avvenimenti che si erano susseguiti alla conclusione del secondo conflitto mondiale.
Poco tempo era trascorso da quel fatidico 1945, che tanta luce aveva proiettata sull’imperiosa esigenza
di una collaborazione europea, che la “cortina di ferro” divideva il nostro continente in due blocchi ostili.
Si profilavano pericoli gravi: forse il rischio che in quel momento di diffusa effervescenza, una pur minima scintilla potesse scatenare un temuto terzo incendio in Europa.
A evitare questo pericolo e a salvaguardare la nostra sicurezza e i nostri interessi non v’era da fare altro che ricorrere a una collaborazione, la più stretta possibile, con gli Stati confinanti, nel più assoluto rispetto della reciproca sovranità: essere insieme fautori di pace. Inoltre, una stretta, intima alleanza con il Benelux, la Francia, la Germania occidentale e la Gran Bretagna ,   o, meglio, un’unione internazionale fra i nostri Paesi indipendenti e sovrani in una novella Europa potevano dare soddisfazione all’esigenza sentita in quel momento dai nostri governanti di porre un freno a una temuta invadenza sovietica in Europa occidentale. Lo imponeva, peraltro, la  nostra
massiccia emigrazione, in quel tempo, in quei Paesi.
A prescindere da queste situazioni contingenti, il tentativo metodicamente sviluppato di una fruttuosa collaborazione europea poteva costituire un esperimento di avanguardia per risolvere i problemi posti dall’incessante progresso scientifico e tecnologico, difficilmente solubili nell’ambito, spesso ristretto, di uno Stato nazionale.  Il tentativo di infondere vita organica e durevole a una comunità europea appariva di grande interesse nel travaglio di trasformazione che il mondo subiva e che rendeva le risorse dei singoli Stati sempre più complementari fra loro. Il progresso scientifico e tecnologico, raccorciando le distanze fra gli uomini e fra i popoli, faceva prevedere che gli uni e gli altri non potessero ormai sottrarsi alla necessità di una sempre più intima collaborazione, dando vita a comunità internazionali che, come era stato auspicato e realizzato con l’Unione Europea, non sopprimessero ma esaltassero le singole
virtù nazionali.
Progresso e collaborazione sono due aspetti inscindibili di uno stesso fenomeno: due facce di una stessa medaglia, Se sul diritto di essa fossero impressi i simboli del progresso scientifico e tecnologico, sul retro dovrebbero essere incisi quelli della collaborazione. Le applicazioni di quel progresso, mettendo in contatto fra loro popoli e uomini il cui tenore di vita è profondamente diverso, pongono anche in evidenza l’ingiustizia di questa disparità. In ogni animo sensibile può sorgere il desiderio di misure radicali contro ordinamenti politici che tollerino queste ingiustizie. Così facendo si rischierebbe però, secondo un’espressione mazziniana, che si distruggano le fonti di ricchezza, di emulazione, di attività, si faccia come quel “selvaggio” che, per cogliere un frutto, abbatteva un albero. Ma è peggio ancora agire senza tener conto dei pericoli insiti nelle applicazioni del progresso scientifico e tecnologico, sarebbe andare incontro alla propria rovina
insieme con quella altrui. Non si tengano in mente solo le distruzioni di vite e di beni provocate da fatti bellici, nel corso dei quali i vantaggi che si legano al momentaneo possesso di mezzi di supremazia possono essere rapidamente annullati dall’incalzare di più progrediti strumenti di distruzione. Non si pensi solo agli sperperi di ogni genere che accompagnano le lotte di fazioni o di categorie nel groviglio di riflessi finanziari, economici e finanziari che consegue al superamento incessante delle tecniche di produzione, Pericoli di ogni sorta sono lo scotto con cui nella vita quotidiana tutti paghiamo i benefici di sempre nuovi ritrovati scientifici e tecnologici. Vita e bene di ciascuno sono alla mercè dell’altrui incuria, dell’altrui distrazione o cattiva volontà. Possono attenuare questi pericoli solo il rispetto reciproco, la mutua comprensione delle diverse esigenze nealla vita internazionale, in quella nazionale e nella individuale. Alle imposizioni ferree delle autarchie, alla rigida disciplina delle categorie sociali, agli egoismi personali, tendono necessariamente a sostituirsi i portati della convivenza, i mutui scambi di servizi: la collaborazione.
Il progresso scientifico e tecnologico va operando intorno a noi una rapida e profonda trasformazione delle condizioni esteriori della vita umana.  L’evoluzione molto più lenta dei nostri stati d’animo, anche per influenze ataviche, rendono spesso difficile abbracciarne tutta la portata. Le stesse dottrine politiche rimangono perciò legate a basi filosofiche chde mal corrispondono alle mutate condizioni di vita.
Da questi sedimenti del passato traggono origine i maggiori ostacoli che si frappongono a una metodica applicazione di concetti associativi  nell’Italia di oggi, nella nostra regione pugliese. Passati attraverso il banco di prova dell’implosione dei blocchi politico-ideologici contrapposti, essi avrebbero potuto essere poi utilizzati con un più vasto raggio d’azione, man mano che
l’incalzare  del progresso scientifico e tecnologico avesse consigliato di ricorrervi.
L’Italia, le Puglie, non avrebbero potuto che avvantaggiarsene. Una politica di collaborazione in regime di concorrenza internazionale e interregionale, non di monopolio d’una nuova classe, di cui è meglio tacere, avrebbe giovato ai singoli cittadini  costringendoli, in patria e fuori, a un lavoro sempre più affinato; avrebbe profittato alla collettività nazionale rifornendola, a mezzo di vantaggiosi scambi, delle materie prime che le mancavano e valorizzando la palpitante documentazione che l’Italia racchiude dell’ininterrotto cammino percorso dall’umanità sulle vie del progresso. Ne sarebbe stato, ancora, intensificato il flusso umano che all’Italia attirano la bellezza del suo suolo e dei monumenti del suo passato, lasciati invece in progressivo disfacimento, e il temperamento dei suoi abitanti.
Ultimo approdo in Europa delle linee aeree e marittime dirette oltre il Mediterraneo,
l’Italia avrebbe potuto potenziarle e contribuire, cooperando con tecnici e capitali  locali e stranieri, alla creazione di centri di vita civile nei Paesi assurti in Africa e in Medio Oriente a indipendenza politica e porre a disposizione di essi i propri antichi istituti di alta cultura.
La tradizione di tolleranza verso usi e costumi stranieri e l’inclinazione ad assimilare gli aspetti positivi di altre civiltà, determinate, l’una e l’altra, da una millenaria continuità di rapporti con popoli diversi per stirpe, consuetudini e religione, avrebbero facilitato una collaborazione coi Paesi in via di sviluppo. Farvi ricorso per adeguarne nel più breve tempo possibile le strutture civili  alla raggiunta indipendenza politica e per contribuire allo sviluppo delle risorse locali  per il benessere proprio e altrui, avrebbe potuto  dar soddisfazione all’amor proprio nazionale dei nuovi Stati e ad arginare altre influenze che avessero mirato invece ad attizzare antichi
rancori nei nostri confronti.
Se dappertutto ai diritti degli individui e a quelli delle collettività corrispondono doveri di umanità, questi doveri appaiono di fatto per il popolo italiano l’esigenza che lo caratterizza e l’individua fra le Nazioni con tutte le conseguenze che comporta l’aiutarsi vicendevolmente nello sviluppo economico con vantaggio reciproco e per il benessere di tutti.  La sua posizione geografica ha  fatto in ogni tempo del nostro Paese il passaggio obbligato di migrazioni da nord a sud, da est a ovest,  e viceversa. Nelle nostre vene scorre il sangue di tutte le genti europee, come di genti dell’Africa settentrionale e dell’Asia Minore.  E’ perciò incomprensibile che vi siano Italiani che si sentano estranei agli altri popoli e tanto meno risentano ostilità nei loro riguardi. Volentieri hanno in passato gli Italiani posto al servizio di altre Nazioni la loro opera multiforme e di ciò anzi beneficiato e volentieri hanno accolto e diffuso
idee di portata universale, idee di bontà, di sapienza e di bellezza.
E’ in questa comune costante caratteristica che sta la millenaria omogeneità del nostro popolo, al di sopra di ogni impronta che questo o quel fattore  possano aver impresso a questa o quella sua parte. Roma dette vita alle prime istituzioni create per permettere a gruppi sociali diversi di collaborare fra loro. Per facilitare i contatti fra i popoli, Roma creò lo “jus peregrinum”  e pose a fondamento giuridico del suo Impero oltre 300 trattati  “jure gentium”. Per 2ooo anni la Chiesa Romana ha predicato la fraternità umana. Lo Stato italiano, di cui si commemora oggi la nascita, è sorto in una visione di rinnovamento nazionale e sociale dell’Europa e del mondo, intesa a  superare le carenze di indirizzi spirituali al di fuori dei quali non vi è speranza di vittoria su carenze materiali. Se ha poi errato, ciò è avvenuto quando, dimentico della  sua propria origine, lo Stato italiano ha
voluto seguire tradizioni altrui non sempre consone a sue proprie situazioni di fatto.
Il nostro popolo ha vissuto i suoi momenti di maggiore splendore quando le circostanze  gli hanno  permesso di dedicarsi a liberi e proficui scambi. Un ritorno cosciente alle nostre migliori tradizioni può ridare agli Italiani la consapevolezza di  una propria individualità nazionale e il motivo per accettare, nell’interesse di tutte le sue regioni, dei suoi autonomi municipi e dei singoli cittadini, adusi al lavoro e non alla disoccupazione infame,  una disciplina fondata sulle proprie antiche caratteristiche: frutto esse stesse della partecipazione della nostra gente agli sviluppi di una civiltà cui hanno concorso tutti i popoli man mano  che venivano fra loro in contatto: caratteristiche che hanno dato vita negli italiani a doti tutte particolari di umana comprensione e di rispettoso amore per la  giustizia.
. . . Ed è questa comprensione, madre della giustizia
sociale oggi obliata, non disgiunta da un senso da un senso di dignità e di misura, che è ora richiesta dai rapporti di cooperazione fra Stati, regioni e uomini, resi indispensabili dai nuovi rapidi mezzi di comunicazione. E’ nella collaborazione culturale ed economica con altri popoli, nel contributo offerto dalla diffusione della nostra civiltà che l’Italia può ritrovare, con il benessere di tutti i suoi cittadini e non di singoli uomini o di singole metropoli o regioni, il lievito dell’unione degli spiriti in un sentimento nazionale virilmente fiero della propria aderenza a concezioni universali: concezioni che, romane, cristiane e risorgimentali, costituiscono la ragion d’essere di  uno Stato unitario italiano nel consorzio delle sue regioni. Questa era era la ferma convinzione dei martiri del Risorgimento, dei Caduti della Resistenza e di quei Padri della Repubblica Italiana, oggi non più citati, ed è ancora questa convinzione che, malgrado tutto, ci induce  a rievocarne le alterne vicende prima che il tempo e l’ignominia di alcuni ne cancellino il ricordo.