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D’Alema che confonde l’occasionale con il permanente |
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Massimo D’Alema è preoccupato. Teme che il risultato delle amministrative appaia una smentita della sua linea, quindi si dà da fare per dimostrare il contrario. E’ la ricerca delle alleanze al centro ad aver vinto, e chi parla di uno spostamento dell’asse politico a sinistra non ha capito nulla. Vediamo. Forte dello strepitoso successo conseguito in una piazza strategica come Macerata (dove il candidato dell’Udc è diventato sindaco grazie al sostegno del Pd e di Sel), D’Alema ribadisce che il voto ha pregnato la proposta di una «larga alleanza democratica». Pazienza se lui ha fatto sistematicamente la guerra alla sinistra (come già alle regionali del 2010), ora l’essenziale è perorare la causa dell’alleanza con il Terzo Polo. E per sostenerla si può anche affermare l’incredibile. Dunque: qual è stata la funzione di Pisapia e de Magistris? Eccola: le loro candidature hanno portato a «stemperare le posizioni più estreme». Testuale. Potremmo chiudere qui, con una domanda (non retorica): cosa direbbe l’on. D’Alema qualora a Napoli avesse vinto Morcone e a Milano Boeri? Non c’è proprio nulla di nuovo in questo argomentare causilico del giorno dopo. L’importante è ribadire di aver sempre ragione. Costi quel che costi, anche sul piano della plausibilità. Allora perché soffermarvisi? Perché mai come in questo caso è apparsa evidente la debolezza di una posizione che sconta un’idea statica e passiva della politica. In fondo, D’Alema ripete da vent’anni una cosa sola e sulla base di essa si è sempre coerentemente mosso; l’Italia è, secondo lui, «un Paese di destra». Qualcuno potrebbe dire che i fatti (fino a ieri) gli hanno dato ragione. Ma si dà il caso che questa diagnosi sia stata formulata in un momento ben preciso, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, cioè in pieno e trionfante neoliberismo. Vent’anni fa a destra andava il mondo intero. L’asse Reagan-Thatcher dettava la linea e l’Europa di Maastricht obbediva mentre si inabissava il "socialismo reale". In sintonia con questa tendenza, in Italia affondava la Prima Repubblica, spariva il Pci e sorgeva l’astro di Berlusconi. Allora, in quella fase storica, l’Italia era indiscutibilmente un Paese di centrodestra. E lo sarebbe rimasta, a corrente alternata, nei successivi vent’anni, anche per responsabilità del gruppo dirigente post-comunista che, fatta la Bolognina, si è dato da fare per cancellare ogni residua traccia della sinistra anticapitalista (coadiuvato - intendiamoci - dai grandi errori commessi da quest’ultima). Ma si trattava e si tratta di un destino? Si trattava e si tratta di un carattere costitutivo, di un connotato per dir così naturale e quindi immutabile? Forse D’Alema queste domande non se le è mai poste. Perché sottilizzare distinguendo tra cause profonde e contingenti? Perché affannarsi a misurare la portata dei processi? In fin dei conti, la battaglia politica è manovra, è capacità di destreggiarsi, giorno per giorno, sul territorio impervio del rapporto di forze. In quest’arte del galleggiamento D’Alema ha acquisito grande esperienza e ne è divenuto un simbolo, un po’ come Andreotti in un’altra epoca storica. Non è un caso che, come Andreotti, egli sia al centro della scena da decenni e che, con ogni probabilità, ci resterà ancora per molto. Ma questa idea di una politica ridotta a registrazione delle tendenze in atto comporta un serio inconveniente. Gramsci - di certo D’Alema se ne ricorderà - la diceva così: confondere l’occasionale con il permanente causa errori gravi, non solo nell’analisi storica, ma anche nell’"arte politica", quando si tratta di "costruire la storia presente e avvenire". Quale errore, in particolare? Che ci si preclude il riconoscimento dei mutamenti strutturali, per cui si rimane prigionieri della quotidianità. Così non scompare solo la capacità critica, sostituita da una spicciola ragionevolezza. Dilegua l’idea stessa di trasformazione. La cronaca diviene storia, la congiuntura destino. E, siccome contro il destino è inutile lottare, tanto vale evocarne un volto benigno. Così la macelleria sociale imposta dall’Europa diventa "modernità", la precarietà del lavoro "dinamismo", la guerra "impresa umanitaria". E adesso? Adesso che non solo in Italia sta cambiando il vento, ma anche in Europa (i giovani non ne possono letteralmente più) e nel nord Africa, dopo che già in tutta l’America Latina? Adesso si richiederebbe un semplice gesto di umiltà. Basterebbe riconoscere di essersi sbagliati scambiando - direbbe ancora Gramsci - l’"accidentale" per l’"organico". L’Italia non è strutturalmente di destra. E’ anche il Paese dell’antifascismo, della Resistenza, della Costituzione, dello Statuto dei lavoratori, di un glorioso sindacalismo di classe, del più grande partito comunista del mondo occidentale. L’Italia non è di destra ed è stato un errore gravido di conseguenze avere in tutti questi anni agito come se l’egemonia del centrodestra fosse un incoercibile destino. Invece no. Sbagliarmi io? Per carità, impossibile. Riconoscere di essere stato colto di sorpresa e di dover rivedere i miei convincimenti? Piuttosto vi racconto un’altra storia incredibile. Piuttosto, mi metto di traverso, remando controcorrente - questa volta sì - e avversando il cambiamento possibile. C’è qualcosa di perverso in questa pervicacia. Qualcosa di diabolico. O forse di malinconico soltanto. Alberto Burgio |
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