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BASTA COL BERLUSCONISMO
IL CAVALIERE VA ALLA GUERRA
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di Gabriele Pantarelli
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Si era preparato un discorso pieno di battute, per salutare a modo suo il conferimento del «Premio Intrepid», ma poi si è sentito talmente «toccato» dalle parole con cui Michael Stern, il venerando presidente onorario dell'associazione «Intrepid» lo ha presentato («un nuovo De Gasperi», nientemeno), che ha lasciato le battute per un'altra occasione e ha pronunciato un discorso «alto». Così l'ultima tappa del viaggio di Silvio Berlusconi negli Stati Uniti (un classico banchetto spilla soldi americano: mille dollari per un tavolo in fondo, 50mila per uno vicino a quello del premiato, 100mila per cenare direttamente assieme a lui) ha finito per diventare la più «politica» in senso deteriore, segnata com'è stata da un atlantismo vecchia maniera che ricordava l'atteggiamento dei successori democristiani di De Gasperi, o se preferite dei leader dei Paesi orientali nei confronti del Cremlino. La «Medaglia della Libertà» che gli è stata appuntata sullo smoking l'ha dedicata «ai soldati americani e italiani che ci rappresentano in Iraq, in Afghanistan e in Bosnia»; il suo allineamento con Washington è «senza se e senza ma»: «Credo che possiamo vincere i protagonisti del male e questa guerra - ha giurato - solo se trasformiamo il mondo in un'altra grande, straordinaria America». L'unico modo per affrontare la sfida dei nostri tempi, insomma, è fare ciò che dice George W. Bush. Lui, in fondo, su questa strada ha lavorato parecchio, ricorda con vanto, quanto si è adoperato contro i governi europei - da quei «ciechi e sordi» che erano - che avevano osato perfino mettere in dubbio l'esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Per lui quella non è stata una disputa sulla verità o le bugie che la Casa Bianca raccontava (e che si trattasse di bugie è ormai così assodato che perfino Bush ha cambiato le «motivazioni» dell'invasione, forse dimenticando di comunicarlo a Berlusconi), ma una conseguenza della scelte imbelli di Francia e Germania, lo prova il fatto che già negli anni `60 Charles De Gaulle mirava alla «creazione di un gruppo di Paesi che trattassero con l'Unione Sovietica». Il vanto diello statista Berlusconi è di avere «lavorato affinché ciò non accadesse» e pensa modestamente di «esserci riuscito», visto che adesso «tutta l'Unione europea sa bene che non c'è prospettiva possibile che possa tenere le due sponde dell'Atlantico distanti. L'Occidente è uno e deve rimanere uno». Il sottinteso è naturalmente che è lì, in quel suo lavoro da fine politico e statista di rango, che doveva essere cercata la ragione per cui gli era stato dato un premio come la «Medaglia della libertà». Ma cos'è che ha tanto «toccato» Berlusconi, nel discorso con cui il 95enne Michael Stern lo ha presentato alle signore in lungo e signori in alta uniforme riuniti a bordo di quel vecchio incrociatore trasformato in museo? «Decidemmo di dargli questa medaglia - ha spiegato Stern - dopo gli attacchi dell'11 settembre. Quando Berlusconi convocò una manifestazione a Piazza del Popolo in onore delle vittime dell'Olocausto del World Trade Center. Allora all'opposizione c'era un partito chiamato Partito democratico della sinistra, ma erano i vecchi comunisti. Convocarono una contromanifestazione in disaccordo con il presidente del Consiglio e sfilarono con le falci e il martello. Non una parola di solidarietà per le vittime. Questa è la natura dell'opposizione in Italia. Questa è la ragione per cui premiamo Berlusconi». Sia chiaro però, aveva precisato Stern all'inizio, «questo premio non ha niente a che vedere con le imminenti elezioni in Italia». Dopo il suo discorso Berlusconi si è un po' intrattenuto con i presenti spiegando il concetto di guerra preventiva (da lui orgogliosamente riassunto con l'espressione inglese one shot, un colpo solo, che qualche brivido lo provoca) e rassicurando sul fatto che va usato solo quando si è assolutamente sicuri di trovarsi in una situazione di imminente pericolo: «La guerra deve essere usata come ultimo mezzo e soltanto quando un paese dovesse preparare armi di distruzione di massa», ha assicurato il premier. E quando gli è stato chiesto se si riferisse all'Iran ha detto di parlare solo «in termini generali». Nessuno invece gli ha chiesto se si riferisse all'Iraq, forse perché lui aveva già spiegato prima, a proposito dei governi europei «ciechi e sordi», di essere rimasto l'unico al mondo a ritenere che quello, di «pericolo imminente», esistesse davvero. da Il Manifesto
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