Al bando i "robot" di guerra
 











Non ho ancora firmato l’appello per "La messa al bando dei robot di guerra" qualche giorno fa proposto da Roberto di Giovan Paolo e Sergio Bellucci, non perché io non ne condivida l’oggetto e le ragioni, ma al contrario perché mi pare che la materia si presti ad aprire una riflessione che oltrepassa l’obbiettivo specifico della proposta, e possa allargarne il senso e le ricadute, di fatto aprendo un grosso discorso di cui ritengo utile dare almeno qualche cenno. La proposta in effetti affronta e mette in causa due materie che sono costanti decisive della storia umana: la tecnologia e la guerra. Due materie in apparenza radicalmente dissimili (mezzo di progresso e miglioramento delle condizioni di vita, l’una; strumento di sopraffazione, distruzione e morte, l’altra) nei fatti però di continuo interagenti, quando non decisamente coincidenti e reciprocamente determinanti. Due categorie per più versi di connotazione opposta: indiscutibilmente positiva la tecnica e il suo sviluppo, frutto delle straordinarie qualità mentali e organizzative della specie umana, base di ciò che più nettamente la distingue da tutte le altre e ne definisce la storia, strumento di quel "pensiero" che ne è orgoglio e positività senza riserve. Negativa la guerra, nella sua qualità distruttiva e mortale, tra l’altro (a differenza di tutte le altre specie viventi, che combattono soltanto lotte "interspecifiche", contro specie diverse dalla loro) praticata dagli umani contro i propri simili. E tuttavia costantemente usata dai popoli non solo come insostituibile mezzo di potere e arricchimento, ma come creatrice di condizioni idonee allo stesso evolversi del pensiero e al fiorire della cultura, e come tale (seppure con non poche riserve da parte di grandi intellettuali) vissuta e celebrata.
Due filoni di un lunghissimo cammino, che oggi (in virtù di un’evoluzione scientifica senza precedenti, per cui mezzo gli umani tendono, e in qualche misura riescono, a
creare in laboratorio la vita, e perfino a duplicare artificialmente se stessi) finiscono per convergere in una produzione che altera e violenta i processi naturali: del quale, se lo squilibrio sempre più grave degli ecosistemi è la conseguenza più evidente e pericolosa, i "robot" - e i "robot di guerra" in particolare - sono l’espressione più azzardata, e per certi aspetti simbolica.
Il senso e le conseguenze di questo processo d’altronde trovano riscontri praticamente nell’intero nostro modo di pensare e vivere la realtà e noi stessi. Il discorso - ripeto - vorrebbe ben più ampio spazio e più meditato impegno di un breve intervento giornalistico, ma poche notazioni possono servire a testimoniare la presenza e l’azione più o meno esplicita ma costante della guerra (nelle sue espressioni più diverse e nei conflitti di ogni sorta) come principale categoria di definizione e di riferimento della società attuale. Non è normale parlare comunemente di "guerra dei mercati"? L’aggressività
non è qualità esplicitamente richiesta in offerte di impiego? La "competitività" non è consueta e apprezzata regola di vita? Non è puntualmente fuori gioco, escluso dalle prospettive più allettanti, chi non si adegua a questa regola? Eccetera.
In qualche modo insomma le armi robotiche, di cui l’appello lanciato da Di Giovan Paolo e Bellucci chiede la messa al bando, si iscrivono nella logica dominante. E tanto più, quindi, al di là dell’obiettivo immediato, di per sé estremamente valido e forse capace di bloccare l’introduzione di androidi da combattimento per tutti gli scenari di guerra, come recita l’appello, l’iniziativa può aprire un ampio dibattito e alimentare consapevolezza sul sempre più aberrante panorama mentale oltre che operativo oggi dominante la realtà planetaria.
Dopo queste brevi note è forse inutile dichiarare la mia adesione all’appello contro i "robot di guerra". A scanso di dubbi, comunque, ecco la mia firma.  Carla Ravaioli