-Stress test poco credibili L’Italia rischia davvero-
 











Che giudizio ti sei fatto su questa vicenda degli stress test?
Keynes diceva che banche e banchieri sono per loro natura "ciechi" perché salvare le apparenze, anche nelle fasi di crisi, fa necessariamente parte del loro mestiere. Per questo egli ironicamente definiva il banchiere come "il più romantico e il meno realistico degli uomini".
In effetti, guardando agli stress test appena effettuati, mi sembra che il giudizio di Keynes possa ritenersi ancora attuale. Del resto, non è un mistero che pure questo secondo test europeo sia considerato da molti piuttosto blando nella valutazione degli attivi delle banche. Teniamo presente che le difficoltà non riguardano solo la caduta di valore dei titoli pubblici che le banche hanno in portafoglio. Il problema è più generale. Pensiamo ad esempio ai crediti che le banche vantano verso il settore privato, i quali sono incagliati da tempo e fanno registrare sofferenze crescenti. Questo soprattutto in paesi
periferici come l’Italia, in cui molte imprese sono in difficoltà e quindi non riescono a rimborsare i debiti.
Le banche italiane non è che possono vantare una tradizione di virtuosità...
In realtà il sistema bancario italiano mantiene ancora degli elementi di solidità rispetto ai sistemi di tipo anglosassone. Una deleteria "americanizzazione" era stata tentata, ma la crisi ha bloccato tutto. Ciò nonostante i problemi non mancano. Appena pochi mesi fa, a marzo, Mediobanca aveva fatto notare che se gli attivi fossero valutati nei termini appena un po’ più rigorosi previsti da Basilea tre, si scoprirebbe che molti di essi rappresentano crediti inesigibili. In quel caso, per rispettare i requisiti patrimoniali, le banche italiane sarebbero costrette a chiedere un aumento di capitale, nell’ordine dei 22 miliardi. Il problema allora sarebbe: come procurarsi tutti questi soldi? Se provassero a ricorrere al mercato, è difficile immaginare che questi soldi li
troverebbero in Italia. E’ più probabile che arrivino investitori esteri a caccia di affari. In futuro potrebbe quindi porsi un problema di tenuta del sistema bancario nazionale. Un problema che è politico, e che andrebbe affrontato evitando di ricorrere al mercato.
Quanto sta pesando in questa vicenda il buco debitorio di Fiat?
Le difficoltà delle banche italiane riflettono i problemi di tutto il sistema produttivo, non solo di Fiat. Tuttavia la vicenda Fiat è un sintomo di come la logica del mercato globale possa creare problemi, con una azienda fortemente esposta verso le banche italiane che tuttavia contribuisce sempre meno a generare reddito sul territorio nazionale.
Chi vince e chi perde in questa guerra globale tra capitali?
Se ci soffermiamo sull’Europa, i problemi degli assetti bancari sono un riflesso di un potente processo di "centralizzazione" dei capitali nel senso di Marx, che si interseca con un progetto politico di
"germanizzazione" dell’Europa. Anche grazie a una politica di rigido controllo dei salari, la Germania vende molto e compra poco. Essa quindi gode di forti attivi commerciali nei confronti di Grecia, Portogallo, Spagna e Italia. Questo surplus potrebbe prima o poi essere usato per effettuare acquisizioni di capitale: con i Greci che magari vendono le isole, gli italiani che vendono le banche e le municipalizzate, e i tedeschi che comprano tutto. E’ evidente che c’è un problema di rapporti di forza a livello europeo. Quello che i paesi periferici dovrebbero fare è di indicare assieme una idea di Europa più equilibrata e solidale, dotata di un motore interno dello sviluppo, e quindi alternativa al progetto di "germanizzazione". Su questo siamo in tremendo ritardo ma se si vuol davvero salvare l’Europa bisogna capire che non possiamo trasformarla in una sorta di "grande Germania".
In effetti si è riparlato di privatizzazioni. Ma che senso ha in una situazione in cui non si
produce valore?
La scusa è che le privatizzazioni dovrebbero contribuire a ridurre il debito pubblico. Ma si tratta di una giustificazione infondata. Basti ricordare che negli anni ‘90 l’Italia attuò un piano record di privatizzazioni e l’effetto sul debito pubblico fu modestissimo. Vediamo quindi di non commettere gli stessi errori di allora. I promotori del referendum sull’acqua dovrebbero in questo senso fare attenzione. Nei prossimi mesi bisognerà infatti interpretare l’esito referendario in termini espansivi, ampliando e definendo con molta più chiarezza la categoria dei "beni comuni". Il rischio, altrimenti, è che salviamo l’acqua ma gettiamo tutto il resto alle ortiche del mercato. Fabio Sebastiani