Mario Tronti "Operai e Capitale"
 











L’osservatorio politico di Mario Tronti è saldamente impiantato nel corpo del Novecento di cui legge e interpreta, ricavandone idea politica, tutti i più significativi passaggi temporali. Nonostante ciò il suo nome resta legato - quasi ancorato - a un momento preciso, i primi anni Sessanta, e a un concetto, l’operaismo. Gli scritti su Quaderni rossi e Classe operaia, in parte raccolti in quel volume epocale che fu l’einaudiano Operai e capitale, sono un sasso che infrange l’ermeneutica devitalizzata del marxismo. Tronti si era formato nella cellula comunista universitaria con un piccolo gruppo di amici che in parte costituirà la componente romana dei Quaderni Rossi, rivista che nella temperie di quegli anni diviene un intenso laboratorio teorico ma anche una straordinaria esperienza umana e politica. La nuova classe operaia torinese è lo sfondo materiale su cui matura la rivoluzione copernicana di Tronti, cioè il capovolgimento del rapporto tra capitale e forza lavoro. Non questa condizionata e modificata da quello, ma il capitale costretto a rispondere alle lotte operaie, obbligato dal conflitto di classe a ricollocare il proprio piano di dominio. Affermando che «il principio è la lotta di classe operaia» (Operai e capitale, 89) Tronti delinea un’ontologia sociale fondata su una parte della società: la "verità" operaia è un modo dell’essere orgogliosamente altro, è partigianeria che sta di fronte al capitale e lo sfida tanto sul terreno della produzione quanto su quello della politica. Questa mossa seppellisce ogni universalismo, ogni umanesimo marxista, ogni opposizione morale all’estrazione di plusvalore.
Ciò che rese quel tempo e quella produzione teorica - che va sotto il nome di operaismo - un momento paradigmatico fu la coincidenza di diverse condizioni: una classe operaia trasformata sia sul piano qualitativo e quantitativo con il prorompente emergere dell’operaio massa; un’intellettualità straordinariamente
raffinata, innovativa e irriverente (Panzieri, Tronti, Negri, Alquati); una politicizzazione del tessuto sociale che anticipava la "stagione dei movimenti" che da lì a breve irromperà in Italia. Fu una fase breve, come più volte ha riconosciuto lo stesso Tronti, che con l’apertura del lungo ’68 italiano opera un primo scarto. Non rispetto all’operaismo ma nei confronti di quella concezione movimentista della politica che si andava imponendo. Il movimento studentesco doveva essere inteso, al più, come una forza di supporto alla classe operaia, da cui aveva mediato orizzonti strategici e qualità ideologica. Qualche anno dopo, ancor più criticamente, Tronti interpreterà i fronti contestativi aperti dal movimento come una sorta di "astuzia" della ragion borghese che attraverso un conflitto a sé "interno" aveva saputo attivare un dispositivo di ricambio e ammodernamento dei ceti dirigenti. Preludendo a quel rilancio dell’universalismo e della lotta per i diritti "di tutti" che sarà l’anticamera dell’antipolitica e della dissoluzione dello stesso paradigma classista.
Nel moto ribelle degli anni Settanta il concetto di autonomia del politico fu considerato da molti "moderato" e "riformista". Autonomia non significava affatto scollamento e indifferenza al piano sociale, né puntello teorico al gradualismo del Pci, partito entro cui egli era tornato a svolgere lavoro politico. Negli articoli di quegli anni, e nel piccolo volume Il tempo della politica, è al contrario evidente la preoccupazione rispetto a tutte quelle espressioni della orizzontalizzazione dell’agire politico, tipiche soprattutto dei giovani, che finivano per sfuggire e spesso opporsi al movimento operaio organizzato. Tronti si interroga su come dare rappresentatività, come incanalare la potenza sovversiva di queste forme nuove del conflitto sociale facendone legatura con le strutture di classe. L’autonomia del politico era l’idea di una mossa anticipatoria che non delegava al sociale la funzione di
stimolo e motore delle lotte, ma che ne accoglieva e ne potenziava il senso dentro una direzione strategica. Un progetto destinato ad arenarsi tra due opposti irrigidimenti, il primo verso le istituzioni e i compromessi (quello "storico", innanzi tutto), il secondo verso il culto movimentista o il sovversivismo dei gruppi armati. I testi degli anni Settanta e Ottanta chiarivano molti presupposti teorici del progetto politico trontiano, che a partire da un’interpretazione originale del Novecento mostrava quale fosse stato il ruolo della politica nel suo rapporto con la dimensione economica. Non ha forse il capitale avuto bisogno dello Stato nazionale prima per innescare e favorire la sua spinta generativa, poi per tentare la soluzione delle tante crisi che ha attraversato? Cos’altro è stato il keynesismo e il rooseveltismo se non un intelligente "uso" capitalistico della potenza della politica? E ancora, la politica del Pci togliattiano non è stata un’abile mediazione tra espressione dei bisogni di classe e autonomia dei ceti dirigenti?
Tronti registra nel passaggio post ’89 la conclusione di un ciclo epocale, favorito, in Italia, dalla liquidazione occhettiana del partito, della sua tradizione proletaria e intellettuale, del suo orizzonte strategico. L’esito di questo esaurimento è questo presente: un dominio del capitalismo non solo come sistema economico ma come ordo borghese, un ridursi delle lotte a difesa economica, una diffusione di pratiche di antipolitica, la concentrazione sulla questione dei diritti o di altri items di volta in volta rubricati nel tatticismo contingente. Su tutto, lo spostamento del lavoro ai margini della politica e la sua riduzione a "piccola" prassi.
Entriamo nel cono d’ombra di fine secolo, nel tempo della "politica al tramonto" come titola il saggio einaudiano del 1998. In questa realtà, sul tempo breve, si può vincere qualche battaglia, ma su quello lungo «il meccanismo capitalistico vince, perché assorbe, recupera e integra»
(Il tempo della politica). Si è pertanto esaurita anche la formula dell’autonomia del politico che era «nient’altro che la politica moderna» (La politica al tramonto) cioè la possibilità di mettere «fine dell’autonomia dell’economico» (Il tempo della politica).
Non si interrompe, negli anni successivi, l’interrogazione di Tronti sulle possibilità di un progetto radicale di modificazione. La logica frontista amico/nemico non è superata e neppure del tutto modificata rispetto alla sua espressione novecentesca. Chi sta "dall’altra parte" è sempre lo stesso soggetto: il capitale, i padroni del mondo, la forma borghese. Si tratta ora di ripensare il conflitto dentro una logica che accolga appieno la sua civilizzazione senza però spegnerne la funzione trasformativa, di concentrarsi su una battaglia di controcultura, esercitando critica verso tutte le "illusioni" della sinistra. A partire da quella democratica di cui vanno svelate le miserie, innanzi tutto la sotterranea tendenza
totalizzante, cioè uniformante, massificante, media e vagamente ottusa, corrispondente ai tratti di quella bürgerliche Gesellschaft, la "buona" società borghese (ripresentatasi con tratti ottocenteschi) che sembra avere risucchiato tutto in sé. Siamo nella realtà della democrazia americana, esportata con guerra e pace, diffusa come una metastasi nel corpo delle società. Per questo è un errore, avvisa, battere le mani a Obama, alle sue intelligenti riforme di sistema, che mai intaccano il dominio di classe, ma lo rilanciano nella forma morbida dei liberals. Non può essere questa la nuova frontiera della sinistra: la borghesia riflessiva, accorpata nella cosiddetta "società civile", ammaliata dall’ennesimo dream americano è l’espressione soggettiva di questo decadimento della politica a difesa dei diritti, a neoumanesimo. Tronti guarda curioso dentro alcune specifiche forme della diversità che increspano questo piano liscio: il popolo, come società reale contrapposta alla società "civile", intesa come articolazione postmoderna del bon bourgeois; la persona, non monadica individualità borghese né massa socializzata dallo spettacolo e dal consumo, ma zona affrancata dell’umano. Si deve quindi fare memoria, riprendere in mano le bandiere sconfitte o lasciate cadere: quella operaia, cioè del lavoro, quella dell’organizzazione partitica (oggi bersaglio delle infinite espressioni dell’antipolitica). Oppure il pensiero di genere nella sua radicalità e non nella richiesta di uniformante parificazione. La domanda percorre infine la dorsale dell’impolitico. La religio, la trascendenza possono essere uno dei terreni che scampano al vortice mortale dell’immanenza, del così è, dell’economia come destino deòl’umano? Forse sì. Purché si riporti ogni nuova forza nell’orizzonte sociale che ci è consustanziale. Se oggi non possiamo abbattere il destino, dobbiamo essere in grado di sfuggire alla sua presa, di scartare da esso, di praticare alterità.  Franco Milanesi