Londra, il riot dell’immaginario
 











-Londra è una moderna Babilonia, spesso una tollerante Babilonia, ma non sempre una Babilonia pacifica-, racconta Enrico Franceschini dopo tanti anni passati da corrispondente della stampa italiana nella capitale inglese (Londra Babilonia, Laterza 2011).
Londra non è solo una città, è un frammento consistente dell’immaginario globale, specie quello giovanile. Ancor di più, fin dagli anni Sessanta è qui che sono nate e si sono sviluppate gran parte delle sottoculture giovanili e di quella che si potrebbe definire come "rock culture". Dai tempi dei Beatles e delle guerre tra mods e rockers, è per le strade della città che ha preso corpo l’idea stessa di un’identità generazionale che si definisse in base a simboli, linguaggi e stili. Se gli Stati Uniti hanno inventato i teenager e il rock’n’roll negli anni Cinquanta, in un mix tra film di fantascienza e Elvis, è a Londra che tutto questo è stato, organizzato, codificato, trasformato in un brand
senza tempo nel decennio successivo intorno a Carnaby Street. E mentre creava quelle che un tempo si definivano come "tribù urbane", Londra ha sperimentato il meticciato e la multiculturalità, ha visto crescere sintesi fantastiche tra esperienze culturali metropolitane e retaggi migratori, ma anche la fierezza dell’identità ritrovata delle mille diaspore che nella città si sono incontrare, e hanno saputo costruire, non senza difficoltà, una convivenza basata sul rispetto reciproco e talvolta sulla solidarietà aperta.
Perciò da sempre le ferite inferte a Londra rappresentano anche altrettanti colpi subiti dalla sua identità culturale, dalla sua anima creativa di laboratorio del futuro, di confine incerto tra la vecchia Europa e ciò che il mondo, fattosi sempre più piccolo, può costruire in uno spazio urbano comune. «Credo sia forte la voglia di colpire questo simbolo, questa metropoli che vive quotidianamente la propria dimensione multietnica. - aveva spiegato a Liberazione il
sociologo inglese Iain Chambers, tra i maggiori studiosi della cultura postcoloniale e docente all’Orientale di Napoli, all’indomani dei gravi attentati che colpirono la città nel luglio del 2005 - Londra, come del resto anche New York e Los Angeles, rappresentano una realtà complessa, multiculturale e multietnica. Si tratta di luoghi che contengono in sé, e offrono di condividere a chi ci vive, una serie di possibilità nuove rispetto alle vecchie città dell’Occidente. In queste metropoli sono diventati evidenti gli sviluppi multiculturali che attraversano oggi a fondo il cosiddetto "primo mondo". Anche se su questa dinamica già in atto pesano poi le scelte del potere politico, che non sempre sembra in grado di raccogliere le nuove domande che su questo terreno vengono poste dalla società-.
Allo stesso modo ogni pulsione ribelle e ogni nuovo fenomeno sociale o giovanile che abbia incendiato le notti londinesi, è entrato a far parte del lessico universale della rivolta, anche quando
i ricercatori sociali parlavano di "conflitti impolitici" e, cercando di fotografare l’anima dei riot, a partire da quello "storico" di Brixton del 1981, si sentivano rispondere dai diretti interessati: «We want to riot, not to work», vogliamo ribellarci non lavorare.
La tensione costante tra il rischio e la possibilità, tra la felicità e il malessere, tra l’affermazione di sé e l’incontro con l’altro, sullo sfondo di una società che andava radicalmente cambiando, e che non si è mai ripresa del tutto dallo tsunami del thatcherismo che ha trasformato quartieri urbani e intere regioni del paese in lande desolate da Terzo mondo postindustriale, hanno attraversato le pagine di buona parte della narrativa britannica delle ultime stagioni. Questo mentre un pugno di scrittori, alternando ironia, disincanto e rabbia, hanno fatto proprio dell’osservazione quotidiana dello spazio metropolitano, con tutta la sua energia e le sue tensioni, la chiave del loro lavoro e, spesso, del loro successo.
A testimoniarlo, decine di romanzi e racconti che hanno descritto i riot del futuro, quelli che il presente ci ha poi presentato nell’ultima settimana, e l’universo delle street gang, ma anche le rivolte urbane degli anni Settanta e Ottanta e le grandi battaglie che hanno accompagnato la fine della working class del Novecento, ma anche il razzismo, i conflitti tra comunità e le difficoltà della convivenza, fino all’11 settembre londinese delle stragi jihadiste del 2005. Le rivolte delle periferie britanniche possono perciò essere raccontate anche partendo da qui.
-Una fila di ambulanze comparve attraverso il fumo e la foschia. Erano in attesa davanti all’entrata del pronto soccorso dell’ospedale di Brooklands. Gli agitatori si erano spostati sulla strada davanti all’ospedale e avevano distrutto diversi negozi. Le vetrine fracassate di un’agenzia di viaggi erano sparpagliate sul marciapiede davanti a me, una trappola di vetro pronta a mordere le caviglie di chiunque si trovasse a
passare distrattamente da quelle parti». Nelle pagine di J. G. Ballard, lo scrittore inglese scomparso nell’aprile del 2009 e considerato come uno degli inventori della "fantascienza sociale", il riot del nuovo millennio assume il volto di una rivolta del ceto-medio, manovrata dall’alto e condotta nel nome del consumismo. Eppure, sembra davvero difficile non scorgere nella rivolta degli ultrà del calcio raccontata in Regno a venire (Feltrinelli, 2006), come anche nella crisi sociale e di valori che fa da sfondo ai terroristi "fai da te" di Millennium People (Feltrinelli, 2004), un’eco di quanto è appena accaduto in Gran Bretagna. «Le strade di Brooklands furono devastate dalla sommossa ancora per un’altra ora. Erano due le casacche indossate, quella della farsa e quella della crudeltà. - scrive ancora Ballard - Bande di tifosi di calcio entravano in ogni supermercato gestito da asiatici e facevano razzie sugli scaffali delle bevande alcoliche, e se la svignavano con casse di birra che poi ammassavano per le strade trasformate in bar che distribuivano bottiglie gratis alla gente che si trovava a passare-.
La stampa inglese ha però spiegato in questi giorni che il libro che aveva davvero anticipato tutto è Hood rat, appena uscito per l’editore Picador: la cronaca, raccontata quasi in forma narrativa, del lungo viaggio compiuto dal giornalista Gavin Knight nel mondo delle street-gang del paese e che i suoi editor hanno già paragonato a Gomorra di Roberto Saviano. «L’esplosione del lato oscuro e violento dei quartieri marginali del Regno Unito non mi ha sorpreso. - racconta ora Knight - L’avevo respirata per tutto lo scorso anno che ho passato a condividere le giornate con le unità speciali anti-gang della polizia di Londra, Manchester e Glasgow. Pensate che in un quartiere di case popolari tra i più poveri del paese, una madre ha regalato a suo figlio, che compiva 13 anni, un machete, "per potersi difendere meglio"-. -I rivoltosi hanno messo a ferro e fuoco i loro
stessi quartieri. Sembrano un miscuglio di ragazzi in cerca di emozioni forti, ladri e delinquenti. Sembrano un’estensione delle gang giovanili coinvolte nello spaccio di droga», aggiunge John King, lo scrittore londinese che ha raccontato la violenza e la cultura degli hooligans del calcio in una serie di fortunati romanzi, tra cui Fedeli alla tribù e Cacciatori di teste, pubblicati da Guanda.
Tra i primi a stabilire un legame tra il clima sociale e politico del paese, le rivolte e le sottoculture giovanili, David Peace, nato nello Yorkshire e vissuto fin qui tra Londra e Tokio, si è fatto conoscere a livello internazionale con il suo "Red Riding Quartet", una quadrilogia di noir cupi e ossessivi che raccontano la storia dell’Inghilterra tra il 1974 e la metà del decennio successivo, tra serial killer, thtacherismo, musica punk e riot. «Penso che l’Inghilterra subisca ancora oggi pesantemente l’eredità del thatcherimo. - ci aveva spiegato solo qualche anno fa - Lo slogan della Lady
di ferro era "Nessuna società", il suo obiettivo quello di rompere ogni vincolo di solidarietà nel paese per concentrare invece attenzione e risorse solo sulla famiglia: ebbene, ancora oggi in Inghilterra le cose vanno così, nessuno prova compassione o empatia verso persone che non sono amici o familiari-.
Anche le scrittrici e gli scrittori che hanno incarnato prima il profilo multiculturale della letteratura britannica, e poi il suo volto mainstrema tout court, da Zadie Smith a Monica Ali, da Nadeem Aslam a Hanif Kureishi, da Jhumpa Lahiri allo stesso Salman Rushdie, hanno spesso riflettutto sui conflitti che covano in quella società. Kureishi, figlio di un pakistano e di un’inglese che con la sceneggiatura di My Beautiful Laundrette, film diretto nel 1985 da Stephen Frears, aveva raccontato il razzismo e la violenza dell’Inghilterra della Thatcher, parla in questi termini dei riot di questi giorni e dei quartieri in cui si sono sviluppati: «Sono aree dove tantissimi ragazzi
girano armati o fanno uso di droghe. I trentenni non hanno mai lavorato e mai lavoreranno, cittadini britannici, e non immigrati, che perlopiù sono dei paria di un sistema economico di cui non sono mai riusciti a far parte. Per molti il passatempo principale è il crimine, al massimo il rap. Vivono in aree dove la disoccupazione è tra le più alte del paese. Per di più, con la consapevolezza che la loro condizione s’aggraverà ancora di più nei prossimi cinque anni». Quanto a Nadeem Aslam, nato in Pakistan ma a Londra fin da quando era un adolescente, che ha descritto soprattutto la crisi interna alle comunità dell’immigrazione e lo "scontro di civiltà" (Mappe per amanti smarriti e La veglia inutile, entrambi per Feltrinelli), ancora pochi anni fa metteva in guardia, su queste stesse pagine, dal perdurare di pregiudizi e razzismo nella Londra del multiculturalismo: «Il riconoscimento (delle minoranze) sul piano culturale c’è stato, per quello politico c’è invece ancora molto da fare. Del resto, perlomeno fino agli anni Ottanta, era normale che nel corso di una trasmissione televisiva qualcuno venisse definito "negro" o "paki", e questo non suscitava alcuno scandalo. Oggi gli inglesi si mostrano più aperti, in particolare verso coloro che vengono dal subcontinente indiano, ma questo perché il loro rifiuto si indirizza su altri immigrati che arrivano dal Kurdistan o dall’Iraq-. Guido Caldiron