Obama in viaggio nel midwest per riconquistare i delusi
 











Con un po’ di civetteria e uno spiccato senso del marketing politico, lo staff della Casa Bianca parla di un "Obama on the road": un tour di tre giorni in autobus negli Stati del midwest più colpiti dalla recessione: Iowa, Minnesota e Illinois. Terre di nessuno, divorate dalla disoccupazione, immiserite da lugubri paesaggi post-industriali fatti di fabbriche dismesse e capannoni abbandonati e con i bilanci pubblici sull’orlo della bancarotta. Ma anche Stati storicamente in bilico tra democratici e repubblicani e quindi decisivi per la corsa presidenziale del prossimo anno. Naturalmente il "Bus-one" non è un semplice pulman con salottini e aria condizionata, ma un "mostro" da 1,1 milioni di dollari, dotato di sistemi di sicurezza avvenieristici e scortato da un mezzo esercito di suv e limousine corazzate. Ciò non toglie che il viaggio obamiano venga pubblicizzato come una umile immersione tra la gente comune da parte dell’uomo più potente del pianeta. Il che, in parte e al netto della prosopopea, è anche vero. Si tratta anche di un ritorno al passato, alle fortunate formule della trionfale elezione del 2008; gli slogan "hope" e "change" occhieggiano infatti sulle fiancate del bus one e dal nutrito corteo che lo accompagna.
L’immagine "keruachiana" del viaggio on the road è senz’altro efficace nel descrivere il tormento di un presidente assediato dalla crisi economica e dallo scetticismo che dilaga come un fiume in piena tra l’elettorato (secondo l’ultimo sondaggio realizzato dall’istituto Gallup, la sua popolarità è precipitata al 39%, il minimo storico). Ma differenza del profeta della "beat generation" che viaggiava lungo l’America della fine degli anni 50 per trovare il significato profondo della nuda vita attraverso un’esistenza nomade, Barack Obama ha in mente un altro obiettivo: far cambiare idea ai delusi dalla sua azione politica. Che tra quei paraggi devono essere diversi milioni di elettori.
L’operazione non
è semplicissima: i dati economici sono quelli che sono, Washington è stata parzialmente declassata dalle agenzie di rating (anche sei ieri Ficht ha riconfermato la tripla A), la disoccupazione galoppa e il dollaro ha smarrito la sua storica centralità nell’architettura monetaria internazionale.
Ma è un’operazione coerente con la linea adottata già durante le convulse trattative per salvare il bilancio federale dallo spettro del default. Riassumendo lo schema: il presidente è vicino ai sentimenti della sua base, ma è stato tradito dalle vischiose pastoie del negoziato parlamentare, dal potere di interdizione delle lobby politiche, attente a difendere solo gli interessi dei più ricchi a discapito dei diritti della middle class. Schema ardito e sull’orlo del populismo, se non fosse che Obama ha sempre difeso l’idea di non far pagare la crisi alle classi popolari, chiedendo un contributo maggiore ai redditi più elevati. Sappiamo che le cose sono andate diversamente, il compromesso
salva-bilancio del 31 luglio ha impedito lo strombazzato aumento delle tasse, diventando di fatto un accordicchio che, per salvare tutti, non ha accontentato nessuno.
Per questo, in quello che si può definire come il battesimo della campagna presidenziale del 2012, Obama vuole lasciarsi alle spalle l’indigesto minuetto andato in scena tra congresso e Senato per ritrovare gli antichi splendori, ma soprattutto l’antica chiarezza. Non c’è quindi da stupirsi se ha aggiunto un nuovo capitolo alla battaglia che ha intrapreso contro gran parte della classe politica Usa. Dal boicottaggio «irresponsabile» dei repubblicani, fino alle ambiguità di palazzo di molti deputati democratici "moderati" diventati una potenziale fronda interna al suo schieramento.
«Il problema che abbiamo non è il nostro Paese, il problema è la nostra politica. C’è tutta una serie di idee che potremmo attuare ora che tradizionalmente hanno avuto il sostegno bipartisan» ha detto ieri mattina in un incontro avvenuto
nel municipio di Decorah, in Iowa. Poi la proposta: «Porterò avanti un piano quando torneranno al lavoro a settembre per rilanciare l’economia, creare posti di lavoro e controllare il nostro deficit».
Ancora non si conoscono i dettagli (e neanche le grandi linee) della proposta. Di sicuro per convincere gli americani che lui è l’uomo giusto per salvare il paese dalla più grave crisi economica del dopoguerra, e che i repubblicani sono degli apprendisti stregoni a cui importa più la demolizione del loro avversario che il benessere dell’America, Obama dovrà agire con convinzione, senza farsi risucchiare dalle sabbie mobili del compromesso e senza farsi condizionare dai veti incrociati dei cosiddetti poteri forti. Una sfida complicata visto che nessun presidente è mai stato eletto quando la disoccupazione ha superato l’8% (attualmente è al 9%). In tal senso, oltre alle belle parole e a sbandierare gli slogan del 2008, nei prossimi mesi l’economia deve dare concreti segnali di
risveglio.
Eppure l’indebolito inquilino della Casa Bianca può ancora contare sull’alleato finora più prezioso: l’estrema confusione che regna nel campo repubblicano, dove lo strapotere dei candidati dei Tea Party sta imprimendo una deriva estremista a tutto il partito. Se dalle primarie dovesse emergere la candidatura di personaggi impresentabili come Michelle Bachman o altri cloni di Sarah Palin, Barack Obama tirerebbe il classico sospiro di solievo.  Daniele Zaccaria