Sviluppo, crescita, apertura, diritti la Cina che corre verso il futuro
 











Governare la Cina è, al di là delle opinioni, un compito arduo. Con 9.671.018 km di superficie è lo Stato più esteso dell’Asia orientale: la popolazione è di 1.306.313.813, pari a circa il 20% di quella mondiale, di fatto è lo Stato più popoloso del mondo.
Su questo grande continente che confina con 14 nazioni convivono più di cinquantasei etnie diverse e si professano cinque religioni o culti distinti. Da 60 anni il Partito comunista cinese è al timone di questo immenso paese. Nata il 1 ottobre del 1949, la Repubblica Popolare Cinese, è stato un paese sotto regime dittatoriale per gran parte del ventesimo secolo, e da molti è ancora considerato tale, ma non tutti sono concordi con questa visione. Tentare di caratterizzare la struttura politica cinese in una categoria precisa non è semplice. Ciò è dovuto alla storia politica del paese: per oltre duemila anni, fino al 1912, il paese è stato governato da una monarchia imperiale centralista, che ha
lasciato una profonda traccia nelle strutture politiche e sociali cinesi. Questo è stato seguito da una caotica serie di governi autoritari e nazionalisti, sin dalla prima rivoluzione cinese del 1912 (anche detta rivoluzione Xinai, da non confondere con la Rivoluzione culturale cinese).
Il regime cinese è stato variamente definito come autoritario, comunista, socialista e varie combinazioni di questi termini. Ma negli ultimi 30anni la Cina ha messo in moto una grande trasformazione. Da paese chiuso e principalmente agricolo, ricco di risorse ma senza tecnologia per sfruttarle, si è trasformata in un colosso economico e finanziario che la sta portando ad essere senza più alcun dubbio una, se non forse l’unica, vera potenza mondiale.
Il recente vertice a Washington in cui per la prima volta gli Stati uniti si sono confrontati con il grande paese asiatico riconoscendogli un ruolo paritario è stato sicuramente il punto di approdo di una lunga evoluzione.
Questa grande
trasformazione economico/sociale è stata rigidamente guidata dal Partito comunista cinese. Ed è forse questa la grande particolarità cinese, passare attraverso grandi trasformazioni senza per questo assistere ad un vero e proprio cambio di potere. Il Partito controlla l’intero apparato governativo, da quello centrale a quello locale. Organo Supremo del potere statale è l’Assemblea nazionale del popolo (ANP), i cui 2979 membri sono eletti per 5 anni dalle province, dalle regioni autonome, dalle municipalità e dalle forze armate.
L’ANP, che si riunisce di regola una volta all’anno, forma al suo interno un comitato permanente di 155 membri, che ne esercita le funzioni negli intervalli fra le sessioni; l’Assemblea elegge il presidente della Repubblica, il primo ministro e il Consiglio di Stato (che svolge le funzioni di governo), formula le leggi, approva i piani e i bilanci dello Stato. Le assemblee popolari e locali e i Comitati da esse eletti sono gli organi locali del potere
statale. Al fianco dell’apparato statale convive un enorme apparato di partito che è difficile distinguere.
Ma la trasformazione della Cina ci interessa da vicino non solo per la realtà che rappresenta, ma perchè oggi quello che accade a Pechino e a Shanghai influenza la nostra vita di consumatori, lavoratori e cittadini. La Cina oggi corre e il resto del mondo prova ad inseguirla. Ha fatto in trenta anni quello che a noi occidentali abbiamo fatto in cento. Nessuna nazione è riuscita a bruciare più rapidamente le tappe dello sviluppo economico, e nessun paese sa giocare all’economia globale meglio della Cina. Tutto questo ha avuto un prezzo e provoca forti contraddizioni in una nazione con la più grande forza lavoro mondiale e dove le difese sociali sono ancora molto deboli.
L’opportunità di poter incontrare rappresentanti del partito e del governo cinese quindi ci ha offerto la possibilità di confrontarci con questa realtà. E la sorpresa principale, a parte alcune eccezioni, è
la poca formalità e il pragmatismo che oggi permea l’apparato e chi governa. Il nostro primo incontro come delegazione è avvenuto a Pechino con i funzionari del Dipartimento estero del partito. Per capire le dimensioni di questo paese bisogna dare dei numeri, di cui siamo stati inondati sin dal nostro primo incontro. Colpisce scoprire che al dipartimento Esteri del partito lavorano quasi 800 persone. La sede è un grattacielo di 20 piani nel centro di Pechino. Le relazioni internazionali sono vitali per il PCC, dopo anni di chiusura, oggi il desiderio di apertura è al centro del processo e non solo di quello economico. Ci ha sorpreso quindi che al primo incontro una delle domande che ci hanno rivolto è stata relativa ai nostri paesi e perchè in Europa la Sinistra non riesce a diventare protagonista. Domanda a cui noi giornalisti europei abbiamo risposto appunto dando ognuno una sua interpretazione.
Negli ultimi anni, la cooperazione economico-commerciale fra Cina ed Europa ha
registrato uno sviluppo rapidissimo; l’Ue è ormai diventata il maggiore partner commerciale della Cina, mentre la Cina il secondo maggiore partner commerciale dell’Unione Europea. Pechino desidera una Europa forte perché preferisce un mondo multipolare in cui vi siano forze capaci di contenere e controllare la debordante potenza americana.
Ma Pechino sa anche che una più salda cooperazione politica con i partners europei deve affrontare la questione più spinosa dei diritti civili e umani. Le parole che sentiremo di più ripeterci in questo viaggio sono poche ma chiare e ci descrivono quale sia la loro filosofia: sviluppo, crescita, apertura.
La fase di "open up" come dicono ha origine nella famosa 3° sessione dell’11° Comitato centrale, e più semplicemente le riforme lanciate da Deng Xiao Ping. E’ lui oggi l’uomo più citato negli incontri. E’ lui oggi il "profeta" e il teorico del "socialismo con caratteristiche cinesi" o socialismo di mercato cinese. Deng fu il cuore della
seconda generazione dei leader del PCC e oggi i suoi eredi sono alla guida della potente macchina cinese.
Oggi la Cina è la potenza economica per antonomasia e il numero uno in molti campi: primo produttore di acciaio, di cemento, grano e carne e si potrebbe andare avanti. Un paese che in questo trentennio è cresciuto ad un ritmo stratosferico e che oggi a causa della crisi internazionale è costretto a rallentare, per modo di dire, visto che siamo su una crescita del 7,2% (stima rivista dal 6,5% visti i risultati degli investimenti guidati dai piani di stimolo approvati all’interno dei confini del Paese asiatico).
Dietro questa rapida ascesa economica c’è un dato di fatto che balza agli occhi: la sua enorme popolazione. Un popolo dove le disparità sociali ed economiche sono ancora marcate, tra regioni dell’est e dell’ovest, tra città e campagna. E le contraddizioni tra crescita economica, della popolazione e le conseguenze per l’ambiente stanno diventando dirompenti. Basti dire
che applicando il controllo sulle nascite (per legge una nascita per coppia) la crescita della popolazione può essere limitata ad un 0,8% all’anno. E questo significa che ogni anno in Cina ci sono 10 milioni di persone in più. Stando ad alcune stime nel 2010 in Cina ci saranno 797 milioni di lavoratori. E’ il più grande mercato del lavoro al mondo. Un mercato con poche regole e pochi diritti.
La base su cui si è retto l’incredibile sviluppo cinese sono state le condizioni misere dei lavoratori e della classe operaia cinesi. Tutti gli osservatori e gli analisti sono concordi nell’affermare che il programma di protezione sociale è stato disatteso ed è venuta emergendo una colossale questione sociale fatta di abbandono forzato delle campagne, migrazioni di massa verso le città, bassi salari, sfacciato arbitrio padronale, mancanza di diritti sindacali, sfruttamento della manodopera femminile e di quella infantile.
Ed è proprio in questo campo che oggi la Cina prova a cambiare. Una
nuova legge sui contratti collettivi è stata approvata nel giugno del 2007 ed è entrata in vigore il 1°gennaio del 2008. Una legge che ha accolto alcune delle richieste delle grandi coorporation occidentali, il cui atteggiamento dimostra quanto sia falsa la loro preoccupazione per i diritti umani, specialmente quando si parla di lavoro e di profitto ma che rappresenta un significativo passo avanti nella legislazione sul diritto del lavoro. Essi sottolineano che la nuova normativa è valida per tutti i luoghi di lavoro, sia pubblici che privati. Secondo la legge, tutti i lavoratori devono avere un contratto scritto e se un imprenditore si sottrae a questo obbligo qualunque rapporto si intende a tempo indeterminato. I lavoratori possono dimettersi entro 30 giorni e non sono tenuti al preavviso se il loro datore di lavoro è inadempiente nei loro confronti. Si prevedono sanzioni nei confronti dei funzionari che non fanno rispettare le norme sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Viene in parte scoraggiata la pratica dei contratti a tempo determinato, che possono essere rinnovati solo due volte. Vengono introdotti alcuni limiti ai licenziamenti. Viene rafforzato il ruolo dei sindacati, che devono essere consultati sui regolamenti aziendali, per la conclusione dei contratti, in caso di dismissioni per ragioni economiche. Il limite più grande è che ancora non viene riconosciuta la libera dialettica sindacale e la costituzione di altri sindacati. In Cina infatti esiste solo un sindacato riconosciuto per legge che è la All China Federation of Trade Union (Acftu), che detiene il monopolio della rappresentanza, il rischio quindi è che le cose continuino come negli anni precedenti. Ma da quando la legge è entrata in vigore sono cresciuti i casi di contenzioso e il risultato è stato finora quasi sempre a favore dei lavoratori. E questa è decisamente una buona notizia.Simonetta Cossu