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Francesco Maselli
Tra lotte e creazione |
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Ho assistito al battesimo cinematografico di Citto Maselli, nel 1949, una domenica mattina, al Barberini, dove settimanalmente il Circolo romano del cinema, l’associazione dei cineasti, proponeva ai propri iscritti film degni di attenzione, recenti o retrospettivi. Non ricordo che cosa si proiettasse quel giorno, ma rammento che a precedere il lungometraggio annunciato c’era un bellissimo documentario, Bagnaia, paese italiano, che aveva una splendida fotografia e ritraeva, esente da annotazioni di colore, una piccola comunità dell’alto Lazio. Era l’esordio di Citto e fu accolto da applausi convinti e prolungati. Gli altri brevi film che seguirono hanno permesso di conoscerci poiché noi organizzatori del circolo Charlie Chaplin, sorto nel 1950 al Rialto, glieli chiedevamo ed erano attesi, discussi e poi commentati sulle riviste specializzate alla pari dei film di finzione, forse con un pizzico di curiosità in più perché quei cortometraggi erano considerati come prime prove, anticipazioni, assaggi in attesa del passaggio a componenti di maggior respiro narrativo. Citto, essendo giovanissimo era giudicato l’enfant prodige del cinema italiano, nonostante fosse già stato allievo del Centro sperimentale di cinematografia, a dispetto della sua età non prevista nel regolamento della scuola. Credo che siano stati Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti a commettere un’infrazione, certi del suo talento. C’erano già allora in Citto l’entusiasmo e la passione che conserva ancora oggi e hanno caratterizzato l’ala neorealista, una fervida e allegra brigata lanciatasi alla scoperta di una realtà che la guerra aveva messo a nudo, ma aspettava di essere raccontata e interpretata con un occhio fresco e penetrante che giungesse alla verità poetica della condizione umana e sociale. Con i suoi trascorsi di ragazzo cresciuto in una famiglia di intellettuali antifascisti, Citto si è collocato naturalmente in questa parte, artista diviso tra due tensioni: gli ideali del comunismo e l’istinto della creazione. Il che ha significato continua ricerca di una forma rigorosa coniugata a un punto di vista critico in cui l’intento conoscitivo e l’impegno morale fossero vaccinati da ogni piega dogmatica e fideistica, indenni da vincoli tematici e da una prevedibilità e da una programmaticità di sviluppi. Sono connotati, questi, che si riscontrano particolarmente nelle opere in cui ad affacciarsi è la problematica politica in maniera diretta, una straordinaria ed esemplare singolarità riscontrabile soprattutto in Lettera aperta a un giornale della sera (1970), in Il Sospetto (1975), in Cronache del terzo millennio (1996) e in Le ombre rosse (2009). Ma c’è anche da dire che questa ammirevole autonomia di movimento corrisponde a un innato anti ideologismo, tradottosi in lucidità di analisi e di osservazione. Una dote che è stata associata alla minuzia e alla sinuosità della introspezione psicologica, in virtù della quale i film di Maselli ci hanno dato alcuni tra i più scandagliati ritratti femminili della nostra cinematografia: in Storia di Caterina (episodio di Amore in città, 1953), La donna del giorno (1956), I delfini (1960), Gli indifferenti (1964), Lettera a un giornale della sera (1970), Una storia d’amore (1986), Codice privato (1988), Il segreto (1990), L’alba (1991) e nei televisivi I tre operai (1980) e Il compagno. Aggiungerei Gli sbandati (1955), il film resistenziale con cui Citto ha debuttato e che per me è stato l’ingresso nell’attività giornalistica, avendo scritto la mia prima intervista per il quindicinale L’eco del cinema, interrogando Citto sul suo lavoro. Così siamo diventati amici e le nostre strade si sono incrociate continuamente perché un vizio abbiamo avuto in comune, il fumo (ce lo siamo tolto), e la voglia di studiare il mondo per cambiarlo, una fatica che, chiariva Lenin, presuppone tanta pazienza e tanta ironia. Il cinema è stato per noi un perenne andirivieni, sia pure l’uno e l’altro affaccendati in campi operativi diversi, dalla sfera della fantasia a quella della materialità del "fare cinema", quindi calati fin sopra i capelli nelle lotte per creare un terreno propizio alla libertà di espressione costantemente minacciata dallo stradominio delle leggi di mercato, dai governi illiberali, dalle potenti concentrazioni che regnano sovrane sulla comunicazione, dalle cristallizzazioni culturali ereditate dal passato e che esercitano un peso gravoso. Ci siamo prodigati molto con Citto, militanti che non hanno perso l’allenamento a ragionare in un partito che altri hanno deciso di "suicidare". E abbiamo accumulato amarezze e sconfitte che rientrano nelle crisi e nelle malattie della sinistra e non risparmiano la storia di un paese in cui il trasformismo e il berlusconismo hanno radici profonde e diramate e provengono da lontano. Inutile nascondersi le delusioni. L’Italia, che avevamo immaginato di là da venire nel 1945, non c’è. Sotto il nostro sguardo scorre una società orrenda che minaccia di peggiorare ancor più. Ma se ci guardiamo attorno, immagini sorprendenti ci colpiscono: registi che protestano contro i tagli dei finanziamenti destinati alla cultura, operai che scioperano, studenti che manifestano salendo sui tetti delle università, arrampicandosi sul Colosseo e premendo a ridosso di Palazzo Madama e Montecitorio. Allora, gente come Citto e me, si conforta con un pensiero che non li ha mai abbandonati: «C’è sempre il tempo per ricominciare». Mino Argentieri-storico del cinema |
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