UN POLITICO AL QUIRINALE
 







di Giovanna Pajetta




Un politico al Quirinale. Quando l'aula si svuota, tra senatori, deputati e leader politici sarà questo l'unico commento unanime. Perché se è vero che Giorgio Napolitano omaggia più volte chi l'ha preceduto, per ben tre volte torna sul nome dell'amico Ciampi, nel suo discorso tutto è diverso. Lo stile, poco aulico e certo poco televisivo, i temi e soprattutto il modo di mettere almeno qualche volta i piedi nel piatto. A cominciare dal giudizio su ciò che è successo il 9 e 10 di aprile. Il momento finale di «un'aspra competizione elettorale dalla quale gli opposti schieramenti politici sono emersi entrambi largamente rappresentativi del corpo elettorale». Una frase che potrebbe apparire scontata, retorica, figlia di quella voglia di pacificare espressa fin dal primo momento. Ma non è così, perché è di qui che parte la rivendicazione, niente affatto scontata dopo tanti ritratti sul vecchio comunista salito al Colle, delle fondamenta di quella che è stata chiamata la seconda repubblica.
Se infatti «lo schieramento che è sia pur lievemente prevalso» ha oggi l'onere e l'onore di governare, spiega Napolitano, questa «è l'espressione naturale del principio maggioritario». Un punto fermo (iniziato, come cita il discorso, con la riforma elettorale del 1993) da cui «non si torna indietro», e se oggi si è «instaurato un clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità» tra i due attori del bipolarismo non è certo un difetto del modello. Un accenno polemico alla legge elettorale che ha reintrodotto il proporzionale, ma in questo caso la premessa per dire che anche l'altra gamba della svolta degli anni '90, la modifica della carta costituzionale è legittima, forse addirittura necessaria. Seguendo le linee guida che Giorgio Napolitano, figlio della sua epoca, come lui stesso ricorda e come molti accuseranno dalle fila del centrodestra, arriva persino ad attribuire ai padri costituenti. I primi a suo dire a preoccuparsi di «tutelare le
esigenze di stabilità dell'azione di governo e evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Sì quindi a un rafforzamento dell'esecutivo, a cui si aggiunge la necessità di rivedere il sistema delle garanzie e il ruolo dell'opposizione. Lasciando invece perdere, come nota imbelvito il leghista Maroni, il federalismo. E la conclusione è che, qualunque sia il risultato del referendum di giugno (su cui, è ovvio, il presisdente di tutti non si pronuncia) «si dovrà comunque verificare la possibilità di nuove proposte di riforma capaci di raccogliere largo consenso in parlamento».
Non è qui però, che Giorgio Napolitano susciterà l'applauso con cui , spesso e volentieri. lo interrompono i parlamentari del centrosinistra. Il tema è scivoloso, molto meglio spellarsi le mani, giustamente, quando il nuovo presidente rivendica un'altra storia, quella della sinistra. Soprattutto se nel «linguaggio classico, figlio della nostra migliore tradizione» come lo definisce l'ex diessino Turci, si
ricorda che al primo punto nella nostra Costituzione c'è il diritto al lavoro. E alla «tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, e dunque anche nelle forme ora esposte alla precarietà e alla mancanza di garanzie». Più in là del resto Napolitano userà frasi ormai cadute nel dimenticatoio, come «la giustizia sociale, la lotta contro le nuove emarginazioni e le nuove povertà». Parole che fanno saltare sulle sedie peones e no di Forza Italia («protocomunismo» taglia corto la senatrice Bonfrisco, che non ha digerito l'omaggio a Nilde Jotti), forse le più chiare e nette dell'intero, lungo discorso. Ma certo è difficile trovare lo stesso nitore quando invece si parla di guerra, di famiglia e soprattutto di chiesa.
Certo, «il ripudio della guerra» sta nella Carta, ma per Napolitano che parla degli «storici legami con gli Stati uniti come cardine di una strategia di alleanze» i morti e le bombe per le strade di Baghdad sono più difficili da affrontare. Così sull'Iraq c'è solo
una frase, e diventa persino ovvia la conclusione che «non è illusorio pensare che questa cornice degli orientamenti di politica internazionle possa essere condivisa dagli opposti schieramenti politici». L'unica notazione diversa, abile, arriva quando il nuovo presidente si inchina ai morti di Nassiriya (qui per una volta applaude persino il cupissimo Berlusconi). Perché, mentre anche dai banchi di centrodestra sono tutti già balzati in piedi, Napolitano loda la dedizione e l'onore di chi è caduto in quelle missioni «qualunque sia il grado di consenso con cui erano deliberate».
«Non sarò in alcun momento il presidente solo della maggioranza che mi ha eletto» proclama sul finale con orgoglio Napolitano. Ma purtroppo non è detto che, fuori dal parlamento, sarà altrettanto equanime. Visto che il primo della lunga serie di ringraziamenti è nientemeno che Papa Ratzinger, di cui a suo parere tutto il popolo italiano condivide i «valori cristiani» e a cui promette «la concreta
collaborazione, in Italia, tra stato e chiesa cattolica in molteplici campi».da Il Manifesto