L'EREDITA' PETROLCHIMICA
 







di Manuela Cartosio




Felice Casson non è tipo da indulgere agli ozi romani. Insediatosi a Palazzo Madama il 28 aprile, il neosenatore Felice Casson (eletto come indipendente nelle liste Ds) ha subito depositato un disegno di legge. Sull’amianto, una delle tante sostante mortifere di cui si è occupato da magistrato. Casson è stato il pubblico ministero nel maxi processo contro il petrolchimico di Porto Marghera dove a far strage di operai è stato il cvm, il cloruro di vinile monomero. Venerdì la Cassazione ha chiuso definitivamente il processo, confermando la sentenza d’appello pronunciata nel dicembre 2004 nell’aula bunker di Mestre: cinque ex dirigenti Montendison condannati a un anno e mezzo di carcere per la morte dell’operaio Tullio Faggin, deceduto nel 1999 per angiosarcoma al fegato, «tipico» tumore causato dal cvm. L’ultimo ad andarsene di una vasta schiera (la lista presentata da Casson conteggiava 157 decessi), l’unico omicidio colposo non «caduto in prescrizione».
Nonostante
le tante e vaste prescrizioni, la sentenza d’appello aveva corretto il «tutti assolti» del primo grado che - era il 2 novembre 2001 - aveva sbigottito e fatto piangere i parenti delle vittime. Tutti morti perché fumavano o bevevano qualche ombreta? «Di qualcosa bisogna pur morire», commentò il difensore di uno dei 28 imputati, il gotha della chimica italiana al gran completo. Frase che non si dimentica. La sentenza d’appello, trovando un punto di equilibrio tra garantismo e giustizia sostanziale, ha risarcito il bisogno di giustizia di un’intera comunità e riconosciuto la fondatezza dell’impianto accusatorio sostenuto da Casson.
Il timbro definitivo della Cassazione, dichiara l’ex magistrato, è estremamente importante. La Suprema corte «mette al primo posto la salute, applicando la Carta costituzionale». Banale? Mica tanto, replica il neosenatore. «Significa che quando si verificano gravi casi di danno alla salute dei lavoratori è giusto e corretto procedere anche con un processo
penale». Certo, i processi si fanno sempre in ritardo, i tumori hanno latenze di decenni, scattano le prescrizioni. Di questo Casson si rammarica ma, aggiunge, il tempo che passa non può essere un alibi. «I processi sono lunghi e complicati, però bisogna farli». In sede penale, ribadisce. La sottolineatura rinvia a uno scontro tra «scuole di pensiero» giuridico emerso in dibattimento nell’aula bunker di Mestre. Una, rappresentata dal professor Federico Stella, patrono dell’Enichem: «Non si potrà mai accertare al di là di ogni ragionevole dubbio il nesso di causalità tra la morte di un operaio del petrolchimico e il cvm. Questo processo andava fatto in sede civile, dove basta il probabile». L’altra, interpretata dai difensori di parte civile e, ovviamente, dal pm Casson. Che liquida il contenzioso in modo spiccio: «Se si dà retta al professor Stella, si esce dalla Costituzione italiana. La salute divente merce. Un’azienda procura danni alle persone o all’ambiente? Paga e tutto finisce lì. Andrà bene per le imprese, non per la giustizia».
Per dirla tutta, la sentenza della Cassazione chiude a favore di Casson anche un altro contenzioso, quello con i giudici di primo grado. Garantisti sinceri e non pelosi, corre l’obbligo di ricordare, uno pure lettore del manifesto. Avevano fatto derivare la loro assoluzione plenaria da una data feticcio, l’anno 1973. Prima d’allora, avevano argomentato, non c’erano le leggi e non si sapeva quanto fosse nocivo il cvm. Dopo, i padroni del Petrolchimico hanno grosso modo rispettato le normative. Confermano le condanne, afferma Casson, la Cassazione dice che le leggi sulla salubrità dell’aria, dell’acqua e dei luoghi di lavoro c’erano fin dagli anni ’50. «E valevano per le imprese, per le amministrazioni pubbliche e per i magistrati». Anche questi ultimi hanno girato la testa dall’altra parte. L’esposto di Gabriele Bortolozzo, l’operaio del Petrolchimico che per primo documentò l’epidemia di tumori tra i colleghi, da cui ha preso
avvio l’inchiesta di Casson è del 1994. «Ma non era il primo», precisa l’ex pm. Se qualche magistrato non avesse messo nel cassetto le denunce di Bortolozzo, le prescrizioni non sarebbero scattate».
La sentenza della Cassazione arriva alla vigilia di un anomalo referendum postale, promosso dall’Assemblea permanente contro il rischio chimico. Un rischio insito nel ciclo del clorosoda e del deposito di fosgene, dice Roberto Trevisan, portavoce dell’assemble. Più elevato, parodossalmente, in un petrolchimo che produce meno di un tempo. In una situazione incerta, le imprese non investono un euro in sicurezza e in manutenzione. A difendere ostinatamente il petrolchimico restano solo i sindacati dei chimici e i lavoratori. Ormai ridotti a 3 mila.da Il Manifesto