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Anche ultraortodossi in piazza per chiedere giustizia sociale |
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Il 3 settembre scorso gli indignados israeliani hanno dato vita alla «più grande manifestazione di protesta sociale» nella storia del paese. La marcia dei 400mila ha segnato una svolta in Israele, mettendo di fronte al liberismo incarnato dal governo Netanyahu (come dal precedente esecutivo Olmert), l’affermazione di un nuovo soggetto sociale, l’israeliano che non sta zitto, «un israeliano nuovo». Forse per l’avvicinarsi dell’autunno, i protagonisti della rivolta sociale hanno ora deciso di "levare le tende", e cominciato a smantellare i "campeggi". Ma questo non vuol dire che la protesta sia finita, chiariscono i leader del movimento, che intendono ora lavorare per influenzare decisioni governative sui prezzi della case popolari, sovvenzioni statali all’istruzione, riduzione delle imposte indirette. Il premier Netanyahu ha creato una commissione ad hoc per le riforme niente affatto apprezzata dal movimento, che lavora a piani alternativi. «Il governo è impegnato a introdurre cambiamenti reali per alleviare gli alti costi della vita», ha dichiarato Netanyahu all’indomani della protesta di massa. Ventiquattr’ore dopo però ha anche detto che non è possibile accontentare tutti e che tutto sommato, confrontata a quella di altri paesi, l’economia israeliana va bene. «Centinaia di milioni di persone vivono in economie sull’orlo del collasso, non Israele», dice Bibi. Ma chi è sceso in piazza sabato non la pensa così. «Sono qui perché voglio cambiare le cose, anzitutto il costo impossibile della vita», dice la trentottenne Reva che come tanti ha portato alla manifestazione sua figlia Orion di sei anni e mezzo. «Pago 2500 shekel per vivere un caravan a venti minuti da Gerusalemme, devo mantenere mia figlia e per il mio lavoro come insegnate d’asilo prendo 6000 shekel. Fai tu i conti», dice. Ma anche chi ha un lavoro ben pagato sostiene di non potersi permettere di acquistare casa, nemmeno dopo aver lavorato una vita. David e Tova, cinquantenni che mettendo insieme gli stipendi di insegnante di scuola superiore e professore universitario arrivano a 20mila shekel al mese, scendono in piazza da quando è partita la rivolta. «Guadagniamo bene, ma ci identifichiamo pienamente con questo movimento. Questo governo deve piantarla di lavorare per l’élite usando l’agenda della sicurezza per controllare le cose. Occorre cambiare il sistema fiscale. Netanyahu dice che l’economia va bene? Bisogna vedere per chi». Secondo la coppia di insegnanti che vive in una casa da 2500 dollari al mesi fuori Gerusalemme, i soldi spesi negli insediamenti sono parte del problema. «Le case lì costano poco», dicono, «ma noi mica vogliamo viverci». Anche i soldi spesi per i religiosi sono causa della crisi, dicono. - E’ questo un movimento di laici contro religiosi? «Non sarebbe così se il governo non li rendesse insopportabili con le sue politiche», rispondono. Prima di salutare aggiungono: «Se volessimo comprare la casa in cui abitiamo potremmo ottenere un mutuo, ma non potremmo permetterci di mettere insieme i soldi del deposito, perché non la vendono a meno di due milioni di shekel». Anche secondo il 53enne Ofer e sua moglie Mariot 41 anni, il problema si riassume nel fatto che Israele spende per gli insediamenti «razzisti e illegali» e per la difesa, invece che per l’istruzione. Ofer è un musicista e sta bene economicamente. E’ uno dei pochi che marciano a possedere la casa in cui vive a breve distanza dalla tendopoli al centro di Gerusalemme, in cui dorme «per solidarietà». Ofer capelli ricci, folti e neri, vota per il partito di sinistra Hadash. Tra la folla che riempie King George Street e marcia verso Paris Square incontriamo anche chi è criticato da molta parte del popolo delle tende. Tamara e Cham Petrovic sono inequivocabilmente religiosi osservanti. Classico abbigliamento nero col cappello lui, gonna lunga fino ai piedi e testa coperta da un foulard, lei. «Io sono di destra, chiariamo, anche se non ho votato alle ultime due elezioni» dice Cham per il quale il problema non sono gli insediamenti, che non ritiene illegali, né chi studia le sacre scritture. «E’ il governo a fare propaganda e dire che queste manifestazioni sono contro i religiosi. Ma questo è tipico divide et impera». Se le posizioni di Tamara e Cham sono diverse da quelle di molti manifestanti sulla questione insediamenti, sotto l’aspetto dell’agenda sociale le rivendicazioni sono le stesse. Lui fa due lavori, come addetto alle pulizie e part-time alla dogana. Lei è impiegata nell’ufficio marketing al museo di Israele. Vivono in un appartamento di 60 metri quadrati al centro a Gerusalemme, vicino Jaffa Street, che costa 4000 shekel al mese. «Chi ci governa dovrebbe costruire case popolari e non solo appartamenti di lusso» dice Tamara, che sottolinea: «Non abbiamo nemmeno la macchina e con soli due figli sopravviviamo». Alla manifestazione non si vedono altri religiosi come loro. Che hanno una storia particolare. Sono originari della ex Jugoslavia e si sono sposati a Gerusalemme negli anni ’90. Lei è di Sarajevo e lui di Belgrado.Francesca Marretta |
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