La rivolta "bipartisan"degli enti locali
 











Da anni ormai, quasi regolarmente, in occasione delle leggi di bilancio o delle innumerevoli manovre finanziarie, assistiamo alla sollevazione del mondo delle autonomie locali. Sindaci, presidenti delle province e delle regioni contestano regolarmente il patto di stabilità interno e i suoi continui inasprimenti e respingono i tagli ai trasferimenti. Una protesta ricorrente, il più delle volte sacrosanta, ma quasi mai ascoltata, e che avviene per lo più nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica che guarda con sospetto all’iniziativa degli amministratori, spesso assimilati tout court a quella "casta" giudicata, dai più, responsabile dei guai del paese.
Ciò che, tuttavia, sta avvenendo in questi giorni muta il senso delle proteste ricorrenti e, probabilmente, anche la percezione che ne possono avere i cittadini. In primo luogo, per la dimensione dell’iniziativa e le modalità stesse con cui viene condotta. Non si era mai visto uno "sciopero"
dell’85% dei sindaci italiani (a stare alle stime dell’Anci) che incrociano le braccia e riconsegnano ai prefetti le deleghe sulle anagrafi o che volantinano davanti agli uffici pubblici. O i presidenti delle regioni che restituiscono i contratti del trasporto pubblico locale al Ministro per gli affari regionali.
La ragione elementare è che enti locali e regioni non ce la fanno più e che con gli ennesimi tagli non sono più in grado di garantire i servizi ai cittadini. Se in precedenza, di fronte alle riduzioni di risorse, gli amministratori locali dovevano comprimere alcuni capitoli di spesa o procedevano all’esternalizzazione parziale dei servizi o all’aumento più o meno limitato delle tariffe, con gli inevitabili disagi subiti dagli utenti, oggi, di fronte alla dimensione dei tagli, neppure quelle scelte (di per sé già inaccettabili) sono sufficienti e lo scenario che si prospetta è quello dello smantellamento puro e semplice di pezzi rilevantissimi di welfare locale.
Che,
peraltro, questo sia il vero obiettivo dell’attuale manovra nei confronti delle autonomie locali è più che logico. Si pensi ai dispositivi contenuti nel provvedimento approvato relativi alla privatizzazione dei servizi a rilevanza economica ( come i trasporti pubblici o la raccolta dei rifiuti) che fanno strame dei risultati del referendum, e ancor di più alle recenti dichiarazioni del ministro Sacconi che ribadisce la necessità di archiviare definitivamente quei risultati rimettendo in discussione anche la privatizzazione del servizio idrico.
Ma in gioco, nella manovra, è tutta la partita dei servizi, anche di quelli ad alto contenuto sociale, dall’assistenza agli anziani, ai servizi per l’infanzia, da quelli per l’istruzione a quelli della sanità.
La portata dell’attacco è di tali dimensioni che la protesta degli amministratori ha assunto caratteri del tutto trasversali. Fa specie vedere sindaci del centro sinistra e del centro destra assieme per protestare contro il governo,
ma ciò si spiega con la gravità dei provvedimenti che, oltre a provocare un evidentissimo danno sociale, mettono ormai in discussione il ruolo stesso delle istituzioni locali. Viene meno, cioè, il loro ruolo di "prossimità" e cioè la relazione stretta che intercorre fra funzioni esercitate e destinatari locali di quelle stesse funzioni. Al di là del disprezzo nei confronti delle assemblee elettive locali che alcuni provvedimenti della manovra mettono in evidenza - si pensi alla miserevole sottrazione di emolumenti ridicoli destinati agli amministratori dei piccoli comuni o al taglio del numero già ridotto dei consiglieri comunali e provinciali- il principale attacco alla democrazia viene condotto modificando la funzione degli enti locali.
All’ombra della manovra si consuma, così, una crisi della rappresentanza democratica e si lacerano i rapporti fra istituzioni e cittadini. Non si tratta di un processo privo di conseguenze sul piano politico. Il malessere nel centro destra è
evidente, e ciò vale in particolare per gli amministratori leghisti, ora chiamati al boicottaggio della protesta da Bossi, ma con risultati contraddittori. D’altronde il disegno federalista è il primo a essere rimesso in discussione. Ha un bel dire la Lega che per sua iniziativa si è ridotto l’impatto della manovra sulle istituzioni locali: 1,8 miliardi in meno di tagli per il 2012 sui 6 previsti è piccola cosa se si considera che ai rimanenti 4,8 si aggiungono a quelli già approvati solo due mesi fa e a quelli previsti in precedenza. Vero è che l’assunto fondamentale del federalismo leghista - e cioè la redistribuzione delle risorse a favore del nord attraverso la gestione quasi esclusivamente locale del prelievo fiscale - viene vanificato da una politica economica di compressione sistematica e generalizzata della spesa pubblica. Se il sud piange non è più vero, a questo punto, che il nord rida.
Di fronte a questo scempio è necessario che si esprima solidarietà alla protesta degli
amministratori locali e che si appoggino le iniziative in corso. Ma ciò non basta. Occorre mobilitare un fronte ampio che riconnetta i cittadini destinatari dei servizi locali ai lavoratori pubblici e privati penalizzati dalla manovra. Questa connessione è essenziale e rimanda all’esigenza di una modifica radicale della politica economica del paese. Se il merito del mondo delle autonomie locali è oggi quello di contestare duramente i provvedimenti, in nome della stessa sopravvivenza delle istituzioni locali e delle loro funzioni, è altrettanto evidente che al momento di formulare proposte alternative la sua coesione è messa a dura prova per le differenze politiche evidenti. E’ a questo livello che occorre agire, ponendo anche agli amministratori l’esigenza che l’allentamento del patto di stabilità e il recupero di risorse per le autonomie locali siano conseguiti attraverso i soli modi socialmente accettabili e cioè colpendo gli alti redditi, i grandi patrimoni, l’evasione fiscale, le rendite finanziarie e tagliando le spese effettivamente inutili o, peggio, dannose.  Gianluigi Pegolo