-Decolonizziamoci dal capitalismo Ci sono altre visioni del mondo-
 











Teologa domenicana, Suor Antonietta Potente dal 1994 vive in Bolivia dove sta sperimentando una nuova forma di vita comunitaria insieme ai campesinos di etnia Aymara. In questi giorni è in Italia perché sarà ospite di Torino Spiritualità, dove sabato 1 ottobre parteciperà al dibattito con Andrea Vitullo "Spiritualità è impegno". «Io vivo una situazione particolare non solo perché da anni vivo con questa comunità aymara, ma soprattutto perché la Boliva si colloca ora in un contesto originale. Dal 2005, come è noto, c’è un tentativo di cambiamento culminato con l’arrivo al governo del Presidente Morales, con una ripresa forte della "dignità dell’appartenenza" a varie culture. A livello mondiale io credo che comunque la nostra situazione costituisca un problema».
Perché incompatibile con lo scenario mondiale?
Il neoliberismo è stato ed è un processo di colonizzazione. Perché viene da una mentalità, perché nasce appoggiato anche
da una certa filosofia religiosa. Lo stesso capitalismo ha un suo retroscena religioso, antropologico e di visione dell’essere umano. Noi siamo da tempo dentro questa crisi perché, e questo è successo anche in Africa e in certe parti dell’Asia, questo processo di colonizzazione è stato più forte. E con questo scenario devono fare i conti anche questi tentativi di resurrezione rivoluzionaria dei popoli.
A questo proposito in che modo ci si deve rapportare con la crisi?
Bisogna mantenere altri tipi di valori legati anche ad una cosmovisione differente e ad un modo di affrontare la vita differente. Ma dentro un contesto dove tu sai che devi accettare qualcosa. Per esempio dobbiamo decidere se scegliere quel cammino che tutto il mondo chiama sviluppo o un’altra strada che basa appunto lo sviluppo su certi criteri culturali e su una certa cosmovisione dei popoli. E’ quello che sta succedendo in Bolivia: da quasi un mese c’è una polemica che riguarda la costruzione in
un’area del Paese di una grande via di comunicazione tra una regione e l’altra che favorirebbe l’ingresso nel Brasile, che però, e qui nasce il problema, passerebbe dentro uno dei polmoni ecologici più grandi della Bolivia dove dentro ci sono dei piccoli gruppi di comunità indigene. Lì il governo si trova tra due fuochi e di fronte ad un bivio: se continuare con questa visione dello sviluppo, dove dei mezzi di comunicazione non si può fare a meno; oppure mantenere una relazione differente secondo criteri di sviluppo della nostra sapienza. Anche sulla politica internazionale siamo costretti a fare delle scelte: in America latina prima c’era l’invasione economica degli Stati Uniti. Ora il loro posto è stato preso dalla Cina. E dunque dobbiamo porci o no il problema se rispettano l’ambiente, se hanno dei criteri, se li rispettano. Sono parti difficili.
Il problema è anche non passare da una colonizzazione ad un’altra...
Ma a questo proposito quelli che devono
discutere di più su come decolonizzarci non sono solo i popoli del Sud ma anche noi qui, in Occidente. Ci dovrebbe essere una decolonizzazione mondiale, perché il capitalismo ha colonizzato anche altre mentalità. Certamente quei popoli che noi chiamiamo del Sud del mondo, anche se questo schema geografico sta cambiando, ci hanno rimesso di più. Ma in questo momento è in atto un processo mondiale. Questa crisi ancora una volta, se la risolvono il Fmi, le grandi banche europee o nordamericane, ci riporta sempre nella stessa direzione. Qualcuno si salverà mentre altri saranno di nuovo sacrificati. Credo che dobbiamo lanciare quest’idea della decolonizzazione dal capitalismo che non vuole dire ritornare indietro. Ma ripensare al fatto che queste scelte hanno portato tutti ad affrontare lo stesso destino. Anche qui c’è un bivio: se qui in Occidente le cose migliorano, nel resto del mondo i popoli saranno ancora una volta penalizzati. Mentre se cambierà il modo di affrontare questa crisi dando il via ad un processo politico e sociale, probabilmente saremo tutti avvantaggiati.
La teoria della "decrescita" punta l’indice contro la religione della crescita economica a tutti i costi. Ha senso cominciare a fare riferimento a parametri economici? Oppure la crescita va bene ma a patto che le risorse vengano poi redistribuite?
Io credo che in questo momento l’unica crescita è rimettere in circolazione tutte le ricchezze del pianeta ma in un altro modo. E’ dunque una questione di redistribuzione, oltre che, soprattutto rispetto alla questione ecologica, di trovare un nuovo modo di utilizzare le risorse naturali. Abbattendo le spese militari, anch’esse causa del forte squilibrio. Questi punti potrebbero essere i pilastri principali per un altro tipo di crescita che deve essere legata a tanti fattori. Io credo che un nostro grande errore è stare dietro appunto ad una crescita unidirezionale e unidimensionale. Ma la crescita non può essere unidimensionale.
Penso anche alla questione del genere. Come nelle scelte economiche siamo stati così maschilisti, così poco attenti ad altre dimensioni. Noi guardiamo alle altre culture come se avessero un’altra visione del mondo, ma la cosmovisione originale è insita nell’essere umano, che sogna un’armonia più totale. Ci sono altre dimensioni che probabilmente noi dobbiamo riscoprire per superare la crisi. Oppure la crisi si supererà ma senza cambiare niente. E invece io credo che il contributo di altre sapienze deve venir fuori per rivendicare il diritto che anche nell’economia possano e debbano entrare altre dimensioni ed altri protagonisti. E anche altre discipline perché l’economia è una delle scienze che si autogestisce ed è una delle più chiuse. Siamo in un mondo che, invece, deve essere portato avanti in modo interdisciplinare. Io sono teologa, ma non posso continuare a pensare al trascendente senza dialogare con le altre scienze che garantiscono così la multidimensionalità della vita. Vittorio Bonanni