Mario Monti e lo spread digitale
 











Rientrare dall’Internet Governance Forum di Trento per assistere subito dopo alla crisi terminale del regime berlusconiano e alla sua sostituzione (nel momento in cui scrivo ancora virtuale) con un governo tecnico guidato da Mario Monti, mi provoca una curiosa sensazione di irrealtà. Provo a spiegare perché.
A Trento ho ascoltato le parole, come al solito lucide e convincenti, che Stefano Rodotà ha speso in favore della costituzionalizzazione del diritto di accesso alla rete, così come ho ascoltato gli argomenti di altri relatori che hanno rilanciato temi già affrontati in precedenti edizioni dell’IGF: dalla necessità di garantire il principio di neutralità della rete, alla difesa dei diritti di espressione e di condivisione della conoscenza contro le tentazioni di censura e gli attacchi dei crociati del copyright.
Poco fa ho appreso che questi e altri obiettivi sono stati inseriti nella lettera aperta che l’IGF ha voluto indirizzare a Mario
Monti, sollecitandolo a colmare i ritardi e le inadempienze che (tutti) i precedenti governi italiani hanno accumulato nei confronti degli altri Paesi sviluppati sul fronte della società, della cultura e della economia digitali.
Prescindendo dal giudizio in merito alla possibilità che Monti riesca a formare un governo, su quale potrà essere la durata di tale governo e sulla quantità e qualità delle cose che riuscirà a fare da qui alle prossime elezioni, ciò che mi impedisce di essere ottimista in merito alla praticabilità della “agenda digitale” abbozzata a Trento è il dubbio che, come era già successo in occasione di precedenti inviti alla “modernizzazione” del nostro Paese, la mobilitazione arrivi in ritardo.
Siamo rimasti in attesa del compimento del nostro processo di industrializzazione quando eravamo già entrati nel postindustriale, abbiamo invocato il superamento dell’arretratezza meridionale quando il nostro Sud si era già trasformato in testa di ponte dell’economia
globale del crimine organizzato. Ora invochiamo il compimento del processo di digitalizzazione come presupposto di un rilancio della crescita economica e della transizione verso forme più avanzate di democrazia, quando Internet si è da tempo trasformata in terreno privilegiato della convergenza di interessi fra i nuovi monopoli ICT e la finanza globale, un connubio che detta le sue ricette liberal liberiste a un sistema politico ormai impotente, e frustra ogni velleità di democrazia diretta e partecipativa: vedi il diktat che ha vietato alla Grecia di indire un referendum popolare sulle misure anticrisi imposte dalla BCE, ma vedi anche il fulmineo precipitare della crisi politica italiana che (l’euforia per esserci sbarazzati di Berlusconi non dovrebbe farcelo dimenticare) non è stato provocato né dalle mobilitazioni popolari né, tanto meno, dalla debolissima opposizione di centrosinistra, bensì dalla inappellabile sentenza dei mercati.
Il senso di irrealtà che provo nasce proprio
da questo: perché appellarsi a Monti, che incarna una cultura che nulla ha da spartire con le istanze libertarie maturate nei movimenti legati al mondo della rete? A difendere la democrazia digitale, oggi, sono rimasti solo gli indignati che si sollevano in tutto il mondo contro la dittatura globale del partito di Wall Street.  Carlo Formenti