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Pubblicità, la torta è drogata La stampa libera si strozza così |
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Quando il Biscione fece la sua irruzione nel panorama mediatico italiano riuscì non solo a farsi fabbricare dal Caf un duopolio su misura ma drogò per sempre il mercato pubblicitario svendendo gli spazi e sbilanciando il rapporto con la carta stampata. Uno squilibrio consolidatosi negli anni dei governi Berlusconi quando, a dispetto di ogni valutazione sull’efficacia del mezzo o sugli ascolti, i soldi della pubblicità sono continuati a piovere sulle solite reti. Non è solo il problema di quando le regole se le scrive il diretto interessato (i tetti per gli spot sono diversi tra Rai e Mediaset) ma anche il dramma di come le risorse pubblicitarie seguano le correnti sotterranee e oscure dei giochi della peggiore politica. Ecco perché il sindacato dei giornalisti, oltre a chiedere quote di pubblicità istituzionale dedicate ai "giornali di pensiero", propone di fissare un’aliquota di tassazione sulla pubblicità televisiva da destinare alle aziende editrici di quotidiani purché la impieghino per lo sviluppo dell’occupazione giornalistica. Una sorta di Tobin tax sulla pubblicità. A lanciare la proposta, il segretario generale della Fnsi Franco Siddi, dopo un seminario organizzato dalla federazione sulle questioni del precariato a livello europeo. In quell’occasione, Siddi si trovava faccia a faccia con il segretario della Fieg, la confindustria degli editori, che solo una manciata di settimane dopo sarebbe diventato sottosegretario di Stato all’editoria, Carlo Malinconico. «Mentre nel resto d’Europa e negli Usa - dice Lelio Grassucci di Mediacoop, l’associazione della stampa cooperativa - c’è un sostanziale equilibrio, in Italia è l’opposto il sistema televisivo è predominante». «In Italia la tv continua a essere lo strumento più utilizzato nonostante la frantumazione dei target e la perdita di efficacia del mezzo», conferma a Liberazione, Paola Panarese, docente di Pubblicità e strategie di comunicazione integrata alla Sapienza. A spulciare i dati Nielsen più recenti (gennaio-settembre 2011) balza agli occhi che dei quasi sei miliardi (5.633.219.000) di euro di pubblicità complessiva, quasi 3 e mezzo vanno in onda in tv (3.369.101.000) mentre solo poco più di un miliardo (1.129.993.000) va alla carta stampata suddividendosi equamente tra quotidiani (free press compresi) e riviste. In sintesi, la tv si pappa molto più del doppio di quanto incassino i quotidiani in pubblicità. Un’anomalia che rende vana qualsiasi predica sulla libera concorrenza. Anche gli studiosi più embedded non possono fare a meno di notare che, dal 1988, il predominio della televisione coincide con uno sviluppo discontinuo e squilibrato della pubblicità. «Rimane ancora dominante la vecchia televisione "generalista", nonostante la sua ripetitiva banalità, mancanza di innovazione e incapacità di evolversi e diventare più selettiva», si legge su un testo pubblicato dalla casa editrice di Confindustria. Inoltre quando si parla di pubblicità televisiva si potrebbe scrivere direttamente Mediaset perché sono le emittenti del Cavaliere a crescere a dispetto dello share e crescono soprattutto quando il loro tycoon sta a Palazzo Chigi. La televisione, infatti, ha aumentato il suo predominio nel 1990-1997. Sembrava che nel 1998-2001 ci fosse l’inizio di un’inversione di tendenza, ma dal 2002 la pubblicità televisiva è salita a un livello ancora più alto di quello che aveva in passato (una variazione in senso inverso nel 2006 è troppo piccola per essere significativa). Provate a sovrapporre a questi dati la successione dei governi e la coincidenza è impressionante. Che si tratti di un mercato «abitudinario, involuto e poco innovativo» lo afferma "Il nuovo libro della pubblicità", edito dal Sole24ore. L’anomalia italiana del mercato media necessita di un urgente intervento anche per l’Ocse, non precisamente un’organizzazione di sovversivi, che nel Rapporto Going for Growth, ha raccomandato all’Antitrust di «valutare il grado di competitività nei media tv». Nel 2010 il 63% dei 3,8 miliardi spesi per la pubblicità televisiva è finito a Mediaset. Alla Rai è andato il 23%. Peccato che lo scorso anno lo share medio di Viale Mazzini, per l’intera giornata, è arrivato al 41,3%, per il gruppo di Cologno Monzese si è fermato al 37,6%. Emblematici i dati della serata in cui la finale del Grande Fratello fu surclassata da una replica del commissario Montalbano. Già nel 2009 già la tv si mangiava il 56% della torta pubblicitaria, peggio di noi solo il Portogallo, dove la tv occupa addirittura il 66%. E se le dimissioni del Cavaliere hanno affondato il titolo Mediaset in Borsa (-12%), il governo di Berlusconi aveva già "imbalsamato" le ricchezze del Biscione. E’ stato sottolineato da più parti che «raccogliere 2,4 miliardi di pubblicità con il 32% di share è un fenomeno paranormale». Perché Mediaset incassa cifre mostruose anche se l’Auditel crolla? Una ricerca ha osservato come nell’infausto biennio Prodi i cosiddetti duecento "Big spender" monitorati da Nielsen avevano un po’ raffreddato i loro investimenti in Mediaset. Ma, appena le urne capovolsero i rapporti di forza, le società che spendono di più, hanno mollato la Rai per premiare Mediaset che, nel frattempo, perdeva otto punti di audience. Il caso di Lottomatica, lotterie e scommesse, interessata a concessione e tasse su ricavi e vincite versa 11,1 milioni di euro a Cologno Monzese e soltanto 1,6 milioni a viale Mazzini: vuol dire l’80% contro il 12 scarso. Lo stesso vale per Eni, Enel, Vodafone, Wind e Telecom e Fastweb.Checchino Antonini |
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