L'INVASIONE DEI CINGHIALI
 







di Cinzia Gubbini




«Non li lavoro mica più, eh. Ho piantato l'erba medica, dò una falciata, tengo pulito. Ma mica si può più lavorare». Parco di Montesole, provincia di Bologna, appennino Tosco- emiliano. Lino Stefanini è uno degli agricoltori che ha la sua tenuta - pian dell'Asinello - nel preparco. Ma nei suoi tre ettari di terra sembra ci sia stato un bombardamento: buche profonde, terra rimossa, chiazze d'erba che non cresce più. I tre filari di vite, poi, sono tutti storti e ormai rinsecchiti: «Anche la vite, mica ci guardo più», ripete Stefanini. Il fatto è che lui, come tutti gli agricoltori di queste zone, è vittima di quella che chiamano «la calamità»: cinghiali, cervi, daini che negli ultimi anni si sono moltiplicati e che spinti dall'istinto vanno a cercare cibo dove gli capita. Senza preoccuparsi troppo se il piatto del giorno è servito da una proprietà privata e coltivata.
Anzi, alle terre coltivate non danno scampo. Per loro, è come una tavola
imbandita: vanno pazzi per gramaglie, grano, uva, frutta. Non disdegnano neanche i «polloni», cioè i germogli che crescono dagli alberi appena tagliati nei boschi cedui. I cervi ne mangiano a volontà. Con il rischio, però, di pregiudicare la ricrescita dei boschi. Il risultato è che i contadini sono in guerra con gli animali, e i più anziani - come Stefanini - gettano la spugna rinunciando a coltivare.
Sono anni che a sud della via Emilia va in scena l'incontro-scontro tra uomo e bestia. Da quando, alla fine degli anni '70, i cacciatori ebbero la bella idea di immettere in queste zone il cinghiale - che è una specie storicamente presente nel versante toscano, meno in quello emiliano. Ma come raccontano i contadini, e conferma anche la Provincia di Bologna, i cinghiali «importati» non sono di «razza italiana», ma incrociati con specie dei paesi dell'est. Il risultato sono cinghiali molto più grandi e voraci, dannazione dei contadini, gioia dei cacciatori.
Negli ultimi mesi in
questa zona è un susseguirsi di incontri, convegni, seminari, sulla «calamità ungulati». Il problema si sta rapidamente espandendo anche nella provincia di Modena, dove proprio alla fine di novembre è stato lanciato l'allarme da Provincia e polizia per alcuni «strani» cinghiali: figli di incroci illegali che potrebbero, è stato sottolineato, incubare malattie come l'afta epizootica, cioè la peste suina. In quella zona, inoltre, gli agricoltori denunciano che la presenza di ungulati sta rovinando la filiera del parmigiano reggiano: i cinghiali per cercare le radici smuovono il terreno, e alla fine la terra finisce nel fieno che viene mangiato dalle vacche da cui si munge il prezioso latte. Insomma, la catena alimentare che garantisce il prodotto «doc» sarebbe ultimamente meno «pulita», e questo potrebbe rischiare di compromettere un prodotto che rappresenta un insostituibile business per la zona.
E come se non bastasse, sugli appennini di Bologna, è arrivata da qualche anno una nuova
«minaccia»: i lupi, che i contadini raccontano essere tantissimi, e affamati. Mangiano pecore, capre, galline. Ma secondo gli uffici della Provincia, questa è un po' una baggianata: i branchi individuati sarebbero appena cinque, dunque una ventina di esemplari e «tutti sotto controllo». Ciò non toglie che i lupi abbiano fame, e visto che i contadini allevano anche capre e bovini, non si vede perché dovrebbero correre dietro ai cinghiali: quando possono, si servono dal recinto. E, forse perché manca ancora la coscienza che i lupi - tanti o pochi - ci sono sul serio, spesso l'azienda sanitaria chiamata sul «luogo del delitto» per certificare i danni, scrive «canidi» e non «lupi». La signora Silvana Armeni, proprietaria di un agriturismo (anche lei ha rinunciato a coltivare, lamenta un intero frutteto distrutto dai caprioli) ha subìto vari attacchi da parte dei lupi negli ultimi quattro anni: «Ma solo una volta il veterinario ha certificato che si trattava di lupi, perché c'era la nave e avevano lasciato inequivocabili impronte - racconta - Comunque i risarcimenti erano davvero un'elemosina, io mi sono arrangiata mettendo i lampeggianti, montando una rete speciale. Ma tutte le mattine, ancora oggi, vedo le impronte intorno al recinto».
Il capopopolo della rivolta dei contadini dell'appennino emiliano si chiama Romano Zunarelli, ha una proprietà nel bel mezzo del parco di Montesole. Settant'anni, ma sembra un ragazzino, Zunarelli si definisce contadino «perché agricoltore mi sembra una parola troppo importante». E' tornato alla terra dopo una vita passata a fare il tipografo, e la frequentazione con libri e scritti vari gli ha infuso un'eloquenza inaspettata in una persona che ha studiato solo fino alle elementari. Zunarelli interviene in tutti i convegni in cui riesce a farsi mettere in lista e scrive decine di lettere (punta in alto, da Romano Prodi all'ex ministro Paolo De Castro). Gli incipit sono su questo tono: »Emergenza ungulati: fonte di risorse per il
settore della caccia in spregio ai danni irreversibili inferti all'agricoltura e all'ambiente, oppure incompatibilità assoluta verso la prioritaria difesa dell'uomo della montagna quale insostituibile presidio del territorio?».
Da anni ormai, fa quanto gli è possibile per denunciare la «calamità» e gli interessi che, secondo lui, ci sono dietro. Una volta, ha fatto anche lo sciopero della fame. «I diessini io, per ironizzare, li chiamo kgb o soviet supremo - dice Zunarelli - Sono sempre stato comunista, i fascisti li riconosco. E questi si comportano come quelli. Vogliono avere il completo controllo del territorio e gestirlo come dicono loro».
Il fatto è che sia i cinghiali che gli «ungulati nobili» non possono essere cacciati a volontà: esiste un preciso «piano di prelievo» che viene stabilito dall'Istituto nazionale di faunistica e dalla provincia. Oltretutto, in alcune zone come il parco o il preparco, cacciare è vietato. Esiste inoltre, una linea rossa sopra cui gli animali
selvatici possono vivere anche ad alta densità. Un modo proprio per stabilire che sotto quella linea, cioè vicino alle zone abitate, si possono invece abbattere in numeri più consistenti. Però, sopra quella linea, non c'è il deserto: ci vivono e ci lavorano gli agricoltori di montagna, appunto. «Si tratta di un problema che conosciamo bene, e i contadini esprimono obiezioni giuste e legittime - osserva l'assessore alla pianificazione faunistica della provincia di Bologna, Marco Strada - tuttavia va riconosciuto alle istituzioni di essere intervenute con decisione nei casi di emergenza e di aver predisposto una serie di strumenti, che vanno dalla linea rossa, ai selecontrollori (i cacciatori che possono intervenire anche fuori dalla stagione venatoria per tenere sotto controllo la presenza di animali, ndr), alla continuità della stagione venatoria, e molti altri».
Ma ci tiene anche a sottolineare che: «Se la provincia di Bologna oggi è ricca di fauna è perché è stata fatta una seria
politica di ripopolamento e di rinaturalizzazione». Non è che ai contadini non piacciano la natura o gli animali. E' solo che chiedono di poter coltivare. Strada assicura che la provincia apprezza e ascolta i lavoro degli agricoltori. E tra i prossimi possibili interventi - soprattutto sugli «ungulati nobili», come il cervo o il daino - cita la possibile cattura per trasferirli in altri parchi protetti (il parco del Pollino aveva dato la sua disponibilità). Un po' come accadde la scorsa estate in Piemonte. Scatenando, però, l'ira degli ambientalisti.da Il manifesto