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-La tv non inventa la rivolta, ma la può raccontare- |
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-Al Jazeera non ha innescato la ribellione, l’ha raccontata. Chi ci dipinge come istigatori fa un torto alla gioventù araba, vuole toglierle il primato di creatività. La gloria di sé. Prima di Al Jazeera le televisioni erano il magafono dei governi, i tg aprivano l’edizione della sera, la più seguita, raccontando dei viaggi di Stato di capi e presidenti, nessuna notizia di esteri e affari internazionali. Per questo, quando è nata la nostra rete in tanti l’hanno vista come una nuova possibilità per sapere cosa stesse accadendo nel loro stesso paese». Mostafa Souag spiega così il successo crescente di Al Jazeera, il principale canale satellitare del mondo arabo. Nato nel 1996 per iniziativa dell’emiro del Qatar, Al Jazeera raccoglie oggi circa quaranta milioni di telespettatori in tutto il mondo, dal 2006 alla rete tv in lingua araba se ne è aggiunta una in lingua inglese, e prevede di svilupparsi ulteriormente specie in direzione dell’Africa sub-sahariana, è infatti allo studio il lancio di una rete in lingua Swahili, ma c’è anche un progetto per un canale in turco. Osteggiata dai regimi arabi, fautori della censura più totale in tema di libertà di stampa, le rete del Qatar ha però avuto diversi problemi anche con le autorità di Washington, in occasione delle due guerre irachene intraprese dagli Usa nell’ultimo decennio, e con quelle israeliane. Forte di settanta sedi in tutto il mondo e di alcune centinaia di giornalisti, provenienti da più di quaranta paesi diversi, Al Jazeera rappresenta, non senza contraddizioni, uno degli aspetti di quel rinnovamento del mondo arabo che è alla base anche delle rivolte democratiche dell’ultimo anno. La tv della globalizzazione araba, come è stata definita più volte, ha infatti partecipato alla formazione dell’opinone pubblica in paesi imprigionati da decenni di vere e proprie dittature o di regimi autocratici e repressivi. Per questo in molti hanno indicato in Al Jazeera, insieme allo sviluppo di blog e social network, una delle radici dell’odierna primavera araba. Arrivato al giornalismo dopo lunghi anni di studi letterari e di attività nel campo culturale, ha studiato letteratura araba all’Università di Algeri alla fine degli anni Sessanta e, in seguito, teoria del romanzo negli Stati Uniti, e si è sempre occupato soprattutto di narrativa e di poesia, Mostafa Souag è direttore responsabile delle News in lingua araba di Al Jazeera ed è direttore del Centro studi della rete del Qatar. Alla tv era arrivato nel 1994, lavorando a Londra per i programmi in lingua araba della Bbc, poi, con la nascita di Al Jazeera, ha fatto il passo definitivo e ha deciso di trasferirsi nel Qatar. Lo abbiamo incontrato a Mantova in occasione del recente Festivaletteratura. Il suo è un percorso apparentemente anomalo, un cultore della poesia e della letteratura araba che dirige una rete di informazione satellitare. Non le sembra curioso? In realtà non credo sia poi così strano. L’immaginazione letteraria aiuta a capire persone e fatti. Può dire molto in poco tempo, vale a dire proprio ciò che in sostanza è richiesto da un servizio in tv. Questa impostazione credo possa anche aiutare a non dimenticare le storie delle singole persone che si incontrano, tenerne conto quando si raccontano i grandi eventi. Del resto credo che scrivere e leggere molto aiuti a sviluppare metodi di osservazone nuovi, utili anche al lavoro televisivo. C’è chi plaude al vostro lavoro considerandovi come "i padri" della primavera araba e chi vi accusa di aver fomentato le rivolte per favorire gli interessi economici del Qatar e dell’Occidente. Lei come vede le cose? Il nostro lavoro non è certo quello di "creare" le rivoluzioni, né di alimentarle. Ma se succede qualcosa in un paese non possiamo neppure far finta di niente, girarci dall’altra parte e evitare di raccontare ciò che vediamo. E’ questo il lavoro dei giornalisti in ogni parte del mondo ed è anche la scelta di fondo che ha fatto Al Jazeera. Quando selezioniamo i nostri inviati non gli chiediamo mai come la pensano, quale sia la loro visione del mondo, non ci interessa, perché quello che deve emergere dal loro lavoro non sono le opinioni personali, bensì ciò che accade in un determinato paese e cosa pensano i cittadini di quel paese, intesi sia come popolazione civile che come autorità. Il fatto è che talvolta è facile intervistare chi sta manifestando, mentre per avere il punto di vista ufficiale, in paesi dove tutto è controllato dall’alto e centralizzato, possono passare giornate intere e poi magari ci si trova soltanto di fronte a due righe di comunicato. In questi casi è difficile sfuggire all’etichetta di offrire un’informazione "di parte". Però in Libia, all’inizio della rivolta, "Al Jazeera" è stata accusata di aver enfatizzato troppo gli esiti della repressione di Gheddafi, finendo per offrire un aiuto sostanziale agli insorti che chiedevano l’intervento degli aerei della Nato. Come sono andate le cose? In Libia hanno cercato di manipolarci, ma questo è un rischio connaturato con il lavoro del cronista che cerca di scavare nelle notizie a partire dagli elementi di cui dispone. In una realtà di guerra e con un potere locale ostile e che intende mantenere il monopolio dell’informazione, non è facile trovare delle fonti credibili e girare direttamente delle immagini, così talvolta ci si deve contentare di ciò che si può documentare con un telefonino. E questo rende tutto più complicato e più difficile da verificare. In particolare gli uomini di Gheddafi hanno cercato di approfittare di ogni incertezza o minimo errore per discreditarci e per spiegare che i giornalisti indipendenti sono in realtà dei manipolatori della realtà. Erano però gli stessi che in alcune occasioni, spacciandosi per semplici cittadini, cercavano di convincere i nostri inviati che i bombardamenti nella Nato avevano fatto vittime che però non si riuscivano a trovare. Del resto, già in passato, proprio il regime di Tripoli aveva cercato di oscurare il nostro segnale dall’intero territorio libico. Un grande successo di pubblico, ma anche tanti nemici, secondo lei perché "Al Jazeera" sembra fare così paura ai regimi arabi ma anche ai paesi occidentali? Non so se facciamo paura a qualcuno, certo non tutti gradiscono l’esistenza di un giornalismo indipendente che non si schiera e racconta le cose per quelle che sono, o meglio per ciò i giornalisti vedono sul campo, con i loro occhi. Quando siamo nati c’era chi diceva che eravamo pagati dal Mossad o dalla Cia per distruggere il mondo arabo. Nel gennaio del 1999 il governo algerino ha addirittura staccato l’elettricità nelle maggiori città del paese per impedire la visione della nostra rete, visto che quel giorno avevamo annunciato un dibattito sulla guerra civile in corso e che prevedeva l’intervento di un noto oppositore politico al regime di Algeri. Più tardi, dopo l’11 settembre, Washington ci ha accusato di essere la voce di Al Qaeda perché avevamo trasmesso i video di Osama Bin Laden. Alcuni nostri reporter sono stati uccisi dai soldati americani in Iraq e la nostra sede in Afghanistan è stata bombardata. Il responsabile della nostra redazione di Kabul è stato arrestato in Israele ed è in carcere ormai da molto tempo. Gu. Ca. |
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