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Parlare della natura significa parlare di anticapitalismo
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Superamento della crisi. Cioè ripresa, rilancio produttivo, crescita. Questo è oggi l’obiettivo auspicato in pratica da tutte le forze politiche, in Italia come in tutto il mondo. Nessuno, o pochissimi (d’altronde per lo più inascoltati), sembrano domandarsi se davvero l’attuale società sia tale da auspicarne così sentitamente la continuità. Se insomma sia davvero augurabile il rafforzamento e la durata di una realtà in cui (sono dati FAO) l’1% della popolazione del mondo detiene il 50% della ricchezza; una persona su 100 è sottoalimentata e ogni cinque minuti un bambino muore di fame, mentre, nei paesi occidentali, il 35-40 % del cibo prodotto viene abitualmente distrutto; in cui i grandi manager ricevono compensi pari a 500-700 volte la paga di un operaio della stessa azienda. Una società altamente tecnologizzata, in cui sarebbe largamente possibile produrre il necessario non solo per la continuità vitale della popolazione, ma anche per la soddisfazione di una larga serie di bisogni secondari, con un numero sempre più ridotto di ore di lavoro, mentre si vanno programmando settimane di ottanta e più ore. Un mondo che dichiaratamente si richiama alle "leggi del mercato", quale dettato non discutibile del nostro agire pubblico e privato. Un mondo che usa la guerra non più solo come mezzo di soluzione delle controversie internazionali, ma come il migliore strumento di rilancio dell’economia. Un mondo, a ritmi sempre più ravvicinati e per eventi sempre più drammatici, sconvolto da una sempre più grave crisi ecologica planetaria. Può forse apparire strano ricordare per ultimo quello che indubbiamente è oggi il fenomeno più temibile per il futuro dell’umanità. Ma il fatto è che proprio perciò merita ben più che la citazione di una serie di fenomeni negativi, e (nei limiti di un articolo di giornale) impone un’attenzione particolare, sia come evento che la scienza concordemente dichiara conseguenza delle scelte economiche e sociali praticate in tutto il mondo, sia come oggetto di politiche specifiche inadeguate, o addirittura di "rimozione" del rischio. Credo occorra dire innanzitutto che, per la politica economica praticata ad ogni livello (dalle massime autorità di governo al singolo imprenditore, piccolo grande grandissimo che sia) il problema ambiente non è più che una variabile marginale, di cui ci si occupa quando se ne soffrono direttamente i danni (il raccolto distrutto, la fabbrica scoperchiata, la città sommersa dal torrente in piena, ecc.) e inevitabilmente ci si impegna a rimettere ordine per quanto possibile. Dopo di che il mondo politico come quello economico puntualmente riprendono le proprie attività, secondo le consuetudini e le logiche di sempre, di cui la crescita (auspicio, esortazione, invito, comando, elaborata analisi economica, accorata preghiera, sogno…) è parola d’ordine e logica portante. Nessuno di quanti a qualsiasi livello sono impegnati in operazioni di rilancio dell’ agognata crescita, o che comunque in qualche misura ne fruiscono, sembra domandarsi: crescita, fino a quando? Nessuno sembra consentirsi una riflessione elementare e - si direbbe - invitabile, sul fatto che tutta la produzione umana, cioè quanto la sterminata organizzazione industriale trasforma nei modi più diversi e immette sui mercati, è una piccola, o meno piccola, porzione di natura: minerale, vegetale, animale. Un frammento del pianeta Terra. Di altro non disponiamo. Che riflessioni di questo genere sfuggano alla massaia che fa provviste al supermercato, o al ragazzo felice di riuscire a comperarsi un telefonino, è comprensibile: anche (forse soprattutto) considerando la pressione consumistica che ci martella. Forse non è da stupirsene nemmeno quando si tratta di persone di qualche cultura, magari informate del crescente guasto ambientale e dei guai che ne discendono, ma alle quali nessuno s’impegna a illustrare il diretto rapporto tra squilibrio ecologico e una produzione in continua crescita. Al contrario la crescita del prodotto (il Pil, magica parola salvagente, senza sosta invocata da politici e operatori economici di ogni sorta e livello) è ormai nell’opinione di tutti strumento di uscita dalla crisi, ripresa economica, rilancio dell’ occupazione, infallibile promessa di benessere. Questo di continuo dice la televisione; questo senza sosta ripetono politici, economisti, operatori di ogni livello; questo sostengono Premi Nobel e intellettuali di fama… Questo concretamente viene perseguito in tutti i modi. Al grido di "100 per 100 rinnovabili", predisponendo l’uso di energie di questo tipo nel progettare riscaldamento e illuminazione di nuovi grattacieli, e in tal modo ottenere il permesso di costruirli; per far marciare fabbriche gigantesche e aumentarne la produzione; per dare vita e incentivare al massimo nuove imprese. Di fatto capovolgendo il fine per cui le rinnovabili sono state pensate. Mentre peraltro non cessano trivellazioni per la ricerca di gas e petrolio nelle più azzardate profondità marine. Intanto la popolazione della Terra aumenta, e aumenta il numero delle malformazioni tra neonati; i profughi ambientali sono più di cento milioni; nel 2010 (secondo le fonti più attendibili) le catastrofi "naturali" hanno causato 225 mila morti e 130 miliardi di dollari di danni. Ma al Summit di Durban, solo un quarto dei politici previsti ha fatto atto di presenza, e nulla di significativo è stato deliberato. Nel frattempo un numero crescente di intellettuali di tutto il mondo va assumendo posizioni sempre più esplicitamente critiche nei confronti della politica occidentale e in particolare del capitalismo; aumentano i libri su queste posizioni, ampiamente citati dalla grande stampa internazionale. "La fine del capitalismo" è il titolo di un articolo apparso su "Die Zeit" una settimana fa, firmato da Wolfgang Uchatius, il quale senza indulgenza dettagliatamente analizza la situazione sociale diffusa, e parla di "benessere fittizio" per concludere che è venuto il momento di cercare un’alternativa. Ma forse il fatto più significativo è l’esplicita condanna del capitalismo sempre più di frequente gridata in tutte le grandi città del mondo da folle crescenti di giovani "indignati": segnale di una nuova consapevolezza, che potrebbe essere antefatto di eventi decisivi. In tutto ciò non si può non sottolineare la sostanziale assenza delle sinistre storiche, quel tanto almeno che ne rimane. Non si può non ricordare il loro rifiuto di fatto dell’ambientalismo, il loro disinteresse da movimenti, iniziative, battaglie, riguardanti la materia; e ciò, inspiegabilmente, benché i danni della crisi ecologica da sempre abbiano soprattutto colpito le classi più povere e sovente gli operai... Il discorso sarebbe lungo e non è qui possibile farlo. Ciò che comunque può essere utile è il richiamo a un momento in cui parlare di ambiente significa soprattutto parlare di anticapitalismo. E dopotutto è stata proprio la critica del capitale e la lotta per il suo superamento a dar vita e storia alle sinistre… O no? Carla Ravaioli
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