Dalle staminali embrionali una speranza per il Parkinson
 











I meccanici conoscono bene la funzione, insostituibile, di ogni minuscolo ingranaggio delle macchine su cui lavorano. E quando un meccanismo si inceppa, loro sanno esattamente cosa fare e come sostituirlo. Ecco: dovremmo pensare proprio all’ingranaggio di una macchina per riuscire a comprendere l’assoluta mancanza di casualità che governa la struttura vitale di ciascuno di noi, del nostro corpo. Ogni cellula, neurone, centro nervoso ha un ruolo specifico, e un preciso incarico da assolvere. Che, se viene meno, pregiudica il funzionamento dell’intero sistema. Come accade quando ci ammaliamo.
Elena Cattaneo – che dirige il Centro di ricerca sulle cellule staminali, Unistem, all’Università di Milano – parte da qui: per descrivere il complesso lavoro di ricerca svolto sulle malattie neurodegenerative. E lo fa, provando a spiegare, in parole semplici, il nuovo metodo – ancora in fase pre-clinica e oggetto di sperimentazione su animali – che studia la
trasformazione in neuroni cerebrali di cellule staminali embrionali. E cioè di cellule il cui destino non è ancora “deciso”. E che possono originare altre cellule, attraverso un processo di “differenziamento”.
Se pensiamo che malattie come il morbo di Parkinson o l’Alzheimer, sono il risultato di lesioni esistenti in gruppi determinati di cellule cerebrali, possiamo comprendere quale sia la speranza e l’obiettivo degli scienziati: realizzare un trapianto di cellule staminali derivate da un “embrione soprannumerario” nella parte del cervello colpita, sostituendo così la parte di tessuto cerebrale danneggiata.
Cattaneo coordina il consorzio di ricerca Neurostemcell, che coinvolge 15 partner tra cui il gruppo di ricercatori americani, guidati da Lorenz Studer del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Il progetto, che durerà in tutto quattro anni, ha ricevuto 12 milioni di euro di finanziamento, dall’Ue.
“Sapevamo che era possibile ottenere neuroni da staminali
umane”, premette, “ma erano neuroni generici”. Dunque, si trattava di una sostituzione rischiosa: perché – ora lo sappiamo – l’intero ingranaggio (di una macchina come di un essere umano) funziona solo se il “pezzo” difettoso viene sostituito da uno identico e integro: “Nel caso del Parkinson, infatti, a degenerare è solo una popolazione di quattrocentomila neuroni”. Si tratta, sottolinea Cattaneo, di “rigenerare questo tipo e numero di neuroni”. Vale a dire, quelli che hanno una funzione specifica: di rilasciare una sostanza che è la dopamina, un “neurotrasmettitore” che veicola le informazioni fra le cellule che compongono il sistema nervoso, e il cui deficit è alla base di malattie come il morbo di Parkinson (che è esattamente la degenerazione cronica e progressiva delle strutture nervose che agiscono direttamente o indirettamente sulla corretta azione motoria).
L’obiettivo del lavoro di ricerca è quello di “installare neuroni sicuri”: per farlo, occorre però immettere in
laboratorio, nelle cellule staminali che dovranno essere trapiantate, le “giuste istruzioni”, spiega Cattaneo. “Negli anni passati, i ricercatori hanno impiantato cellule non del tutto identiche a quelle degenerate, dando luogo a una miscela non ottimale in quanto vi restavano intrappolate anche cellule immature potenzialmente tumorali”. Mentre “a giudicare dai risultati ottenuti con questo lavoro, possiamo affermare che le istruzioni che i colleghi americani hanno immesso sono corrette: questo ci dice che si è sulla buona strada”.
I ricercatori hanno esposto per quaranta giorni, in vitro, le cellule staminali a piccole molecole chimiche: e hanno osservato che, convertendosi, l’80 per cento di queste cellule assumeva “la carta d’identità giusta: quella tipica del progenitore del neurone che si voleva formare”.
Trapiantando poi, queste cellule con l’identità giusta, nel cervello di un topo con sintomi di Parkinson, “l’animale migliorava le proprie anomalie comportamentali
tipiche della malattia motoria (ad esempio, smetteva di ruotare su stesso). Replicando l’impianto delle cellule ottenute in laboratorio su un’altra specie, il ratto, accanto al miglioramento dei comportamenti, i ricercatori hanno osservato anche assenza di crescita tumorale. Infine, sulla scimmia, “le cellule trapiantate erano in grado di formare i neuroni dopaminergici”. La sperimentazione, sottolinea Cattaneo, è ferma a questo punto. Lorenz Studer, il ricercatore americano che ha coordinato il lavoro ha dichiarato che “se entro cinque anni, secondo la nostra previsione, saremo in grado di dimostrare anche il recupero comportamentale sulla scimmia, e tutti i risultati si consolideranno, passeremo alla fase clinica”. Dunque all’applicazione di questa strategia sui pazienti malati di Parkinson.
Ed ecco le tre sfide da vincere, secondo Elena Cattaneo: ottenere neuroni dopaminergici giusti, “omologhi a quelli che si trovano in vivo e che muoiono nella malattia”; eliminare il “rischio
di una proliferazione anomala di residui cellulari non differenziati che danno luogo a cellule tumorali”; “migliorare la sopravvivenza delle cellule”.
“Siamo a un giro di boa fondamentale: che speriamo possa indurre la Commissione europea a continuare a sostenere ricerche che, a mio avviso, sono scientificamente importanti ed eticamente legittime in quanto mirano a costruire strade ulteriori per capire e sperare di curare. Sul piano legislativo, i limiti imposti alla ricerca sulle cellule embrionali umane hanno da sempre costituito un freno. Nonostante questo, i risultati del gruppo americano sono entusiasmanti e pionieristici. Ora si dovrà verificarne la solidità anche da parte di altri laboratori nel mondo”: una sfida continua e necessaria proprio come la ricerca. Ilaria Donatio-micromega