I greci non ce la fanno più
 











Non si può capire Atene oggi se non la si attraversa di notte. Di giorno sembra, quasi, la capitale normale di un paese normale. Il traffico impazzito, i negozi del centro, i bambini a scuola. Superficie. Perché poi calano le tenebre e c’è lo splendido Partenone sullo sfondo, riccamente illuminato e quasi una metafora dello sfarzo che sta solo nel passato, ma le strade sono buie persino vicino ai palazzi del potere e attorno a piazza Syntagma.
Le attraversano, furtivi, giovani centrafricani coi capelli rasta, che non fanno più parte del panorama diurno: espulsi dalle ore di luce con le loro cianfrusaglie di falsi. Fanno concorrenza "sleale" alle vetrine che resistono dopo la prima ondata furiosa di darwinismo economico. Due su dieci hanno chiuso e chi alza ancora la saracinesca denuncia il 25 per cento in meno di guadagni.
La guerra tra poveri spinge gli ultimi, gli africani, dalla semilegalità all’illegalità totale se adesso vanno in cerca di
clienti per spacciare un Paradiso artificiale in presenza di un inferno reale. Eroina, cocaina, ecco i soli consumi che presentano una curva in ascesa. Una piaga che ha spinto il governo a presentare un progetto di legge per depenalizzare il possesso di "piccole quantità" di tutte le droghe (il traffico resta punito dai 10 ai 20 anni) perché, ha detto il ministro della Giustizia Milziade Papaioannou, "il consumatore è un malato non un criminale".
Negli androni di palazzi scorticati avvengono gli scambi bustina-euro e, più o meno nelle stesse ore, inizia il lavoro un’altra categoria in forte espansione, quella dei ladri. Nel 2011, stando alle statistiche del ministero dell’Interno, i furti sono aumentati del 30 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Nella terra delle "Santa ortodossia" il bisogno impedisce il rispetto almeno della fede se l’incremento delle chiese svaligiate è del 180 per cento. E poi rapine (più 132), estorsioni (più 50), truffe (più 56). Insomma, qualunque
delitto abbia a che fare con il denaro.
La notte sarebbe anche per professioni lecite, come quella del taxista. Se non fosse che ormai quasi tutti la trascorrono nell’abitacolo a far passare il tempo che manca all’alba. Tanto clienti non se ne vedono e pazienza in questi giorni rigidi di inverno inclemente. Il fatto è, denunciano, "che non abbiamo fatto una corsa nemmeno la notte di Natale o quella di Capodanno, quando prima impazzivamo di richieste, fuori uno e dentro un altro".
A essere capaci di guardare, non è che il dopocena di Atene sia poi così deserto. Nel dedalo di strade che si irradia da piazza Monastiraki non si riesce nemmeno a entrare nei locali alla moda, folla, ressa e bella gioventù. Passare il tempo insieme è il miglior antidoto alla possibile depressione che ha fatto aumentare il numero delle persone che si suicidano buttandosi dall’Acropoli. "Però", dice il gestore del "Black & White", "i clienti bevono un drink, tre euro, e si accontentano per tutta la
sera". Non se ne lamenta tuttavia, capisce il momento e quei ragazzi squattrinati perché almeno una cosa buona la produce il mal comune: la solidarietà. Succede in tutte le città di crisi, o di guerra, a qualunque latitudine.
Non fa eccezione la Grecia dove c’è sempre un posto al tavolo dei ristoranti benché per un buon pasto non si spenda più di 15 euro. Il titolare di "Niko’s", moussaka e souvlaki da urlo, quando sente la parlata italiana e capisce che siamo qui anche per Theo Angelopoulos (il grande regista vincitore di Cannes, Venezia e Berlino, morto a 76 anni il 24 gennaio travolto da una moto sul set del film "L’altro mare" che ha per tema proprio il dramma del suo paese), non vuole che il conto sia saldato: "Invece che a me, uscendo per la strada, date i soldi a qualcuno che ne ha più bisogno". C’è l’imbarazzo della scelta. Persone senza un giaciglio al caldo si addormentano (speriamo anche si sveglino) praticamente sotto i pilastri di ogni edificio, una sola coperta per
conforto.
Contendono gli spazi ai cani che, indisturbati, da sempre sono una caratteristica della città notturna. Li si incontra ovunque, persino accovacciati agli ingressi dei pub. L’ong Medici del mondo, valuta che un ateniese su 11 si sfami alle mense comunali o nei refettori delle associazioni religiose; sei greci su dieci hanno peggiorato le abitudini alimentari e cento bambini al giorno si fanno vaccinare dai dottori dell’organizzazione quando, fino a due anni fa, la stessa era a disposizione praticamente solo degli immigrati. Stando a un denuncia del locale Wwf, non potendo pagare le bollette, molti si sono messi a tagliare gli alberi per farne legna da ardere (come nell’Albania dopo il comunismo o nella Sarajevo assediata). Non solo i singoli ma anche gruppi organizzati che starebbero saccheggiando le riserve boschive senza che nessuno intervenga perché i fondi per la difesa del territorio sono stati decurtati.
La traduzione in cifre di questo sfacelo è eloquente. Il 2011
si è chiuso con il Pil a meno 5,5 per cento (-3,5 nel 2010) e le previsioni per il 2012, sicuramente da ritoccare al ribasso, dicono -2,8. Eurostat prevede un segno più (0,7) solo dal 2013 ma sembra ottimismo della volontà. Il numero dei disoccupati toccherà quest’anno il 17 per cento (erano più o meno la metà nel 2009). Tra riduzione dei salari e nuove tasse, valuta un rappresentante della pattuglia degli economisti mandati da Bruxelles a monitorare i conti del paese, "il potere d’acquisto del salario è sceso del 40 per cento". Due manovre successive da 18 e 37 miliardi di euro, promosse dal governo di un tecnico, Lucas Papademos, sono una prima pezza, insufficiente. "Il paese", dicono i tecnici mandati dall’Unione europea, "ha vissuto troppo a lungo molto al di sopra delle proprie possibilità". E ora non può più permettersi 800 mila dipendenti pubblici (su 11 milioni di abitanti) e un debito da 300 miliardi che è il 150 per cento del Pil (210 miliardi). Il paragone che tutti richiamano, e che dovrebbe farci rabbrividire, è quello con l’Italia. Con noi è rispettato, quasi plasticamente, il rapporto uno a sei. Loro sono un sesto degli italiani, e hanno un debito pubblico che è un sesto del nostro (circa 1.900 miliardi euro). Così "stessa faccia, stessa razza" non è più lo slogan scherzoso che ci siamo sentiti ripetere spesso in vacanza, ma diventa un monito: attenti a non fare la nostra stessa fine.
Gli ispettori europei, così come quelli del Fondo monetario o della Banca mondiale, vivendo a contatto con le "cavie" del loro esperimento che potrebbe avere per titolo "Ipotesi di salvataggio di uno Stato dalla bancarotta", hanno una percezione assai diversa dei capiufficio di Bruxelles o dei politici nelle varie capitali europee. Toccano con mano, apprezzano, gli sforzi titanici. Ed esprimono una cautissima speranza che si basa su una percezione: i greci hanno capito e, in qualche misura, accettato di diventare più poveri. Fanno il tifo per l’accordo coi
privati (leggi banche soprattutto francesi) perché vada a buon fine l’accordo sulla rinegoziazione del debito. Ma perché il tutto non si concluda con il classico detto "l’operazione è riuscita, il paziente è morto" chiedono di dilatare nel tempo i sacrifici. Il loro programma è quadriennale, scadrebbe nel 2013, vorrebbero fosse prolungato almeno sino al 2020 per raggiungere un obiettivo: scendere al 120 per cento del rapporto debito/Pil: cifra considerata "sostenibile" per far tornare Atene sul mercato. Di fatto, se non di diritto, già svolgono quel ruolo di commissari che la cancelliera Angela Merkel vorrebbe fosse sancito ufficialmente per allargare i cordoni della borsa comune (139 miliardi di euro di aiuti, 30 per il rifinanziamento degli istituti di credito). A Berlino dicono che la Grecia ancora non ha fatto sul serio e vogliono più sacrifici. I greci si guardano nelle tasche e rispondono che proprio non possono. Non si sono mai interessati tanto di politica come in questa fase e la dura Angela è vissuta nell’immaginario come l’orco delle fiabe. Che abbia un qualche diritto di ficcare il naso se il denaro degli aiuti è quello dei contribuenti tedeschi (e francesi, e italiani...) è ormai un assunto passato come una medicina necessaria. Ma non può spingersi al punto di sospendere la democrazia laddove la democrazia è nata pur se è stata calpestata diverse volte nel corso della storia. E’ vero, sono stati i "loro" politici a truccare i conti e a produrre il disastro, è vero che portano il peccato originale, però sia loro permesso almeno di decidere come salvarsi. La sottile linea che separa l’umiliazione dall’orgoglio è più o meno questa: diteci pure di quanto dobbiamo rientrare ma lasciateci il libero arbitrio di decidere come farlo. Altrimenti, e il sentimento si diffonde sempre di più, meglio dichiarare il default, uscire dall’euro e tornare alla dracma. Dice Andreas Dimitropoulos, 36 anni, ingegnere informatico ora con un contratto part-time da 1.700 euro al mese, moglie e due figli: "La mia prospettiva, se l’Europa vuole che continuiamo a tirare la cinghia, è di vivere in questa situazione precaria per almeno 20 anni. A che pro? Per poter dire che non abbiamo fatto bancarotta? Meglio forse ripartire da zero e ricostruire dalle macerie. Alla faccia della signora Merkel e di tutti i creditori".
Un problema, invero di altro genere, coi tedeschi lo aveva anche Theo Angelopoulos, prima di morire. Aveva dovuto fermare la produzione perché gli eredi di Bertolt Brecht non volevano permettergli di usare "L’opera da tre soldi" (guarda caso il tema sono i miserabili) che aveva una parte nel suo film. Sullo sfondo di una vicenda padre-figlia, nella sceneggiatura c’è la Grecia di oggi. Per questo la sua fine è stata vissuta come una potente metafora. Dice il suo sceneggiatore storico Petros Markaris: "Theo ha cominciato col cinema durante il periodo durissimo dei colonnelli. E’ morto durante un altro periodo terribile". Come se fosse appunto la
Grecia migliore quella che se ne va facendo del futuro un’incognita. Al suo seguitissimo funerale la gente ha fischiato i pochi politici che si sono presentati. E, mentre la bara veniva calata nella terra del cimitero numero 1, gridava: ""Athanatos" (immortale). Solo con gente come te la Grecia si sarebbe salvata".
E’ nelle difficoltà che si ricorre alle metafore. Allora eccone un’altra, forse più realistica. Mentre per le strade di Atene corre la disperazione, il Partenone è meta ininterrotta di turisti cinesi. Che sia questo il destino dei greci? Fare da guide turistiche dei nuovi ricchi?  Gigi Riva-espresso

Grecia, niente accordo con la Trojka Juncker: “Default entro due mesi”
La Grecia è sull’orlo di un fallimento ben più devastante della Lehman Brothers. Le febbrili e concitate trattative tra il premier Lucas Papademos e i tre partiti che lo sostengono in Parlamento sulle richieste dalla Trojka (Fmi-Bce-Ue) si
sono concluse con un nulla di fatto. Il premier non è riuscito a strappare un assenso all’ennesimo piano di austerity ma non ha neppure ricevuto un no secco.
Dopo cinque ore di riunione il leader del piccolo partito nazionalista Laos, George Karatzaferis, ha annunciato che i colloqui proseguiranno oggi e nella notte, in una email inviata dall’ufficio del primo ministro alla Trojka europea, Papademos ha scritto di un “accordo di massima per le nuove misure”. Insieme alla maxi ristrutturazione del debito che ha coinvolto i creditori privati e il cui accordo sembra ormai definitivamente concluso, la partita delle riforme secondo i vertici di Bruxelles è cruciale per la permanenza della Grecia nell’Unione monetaria.
Prima del vertice con i partiti il premier ellenico ha sentito telefonicamente il presidente della Bce Mario Draghi e il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde. In un’intervista pubblicata dal settimanale Der Spiegel il presidente
dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato che se il governo di Atene non metterà presto in atto le riforme promesse, la Grecia potrebbe fare fallimento nel giro di due mesi e non ci si potranno attendere “gesti di solidarietà da parte degli altri”.
I partiti ellenici temono, ovviamente, un’esplosione sociale visto che le misure imposte sinora da Bruxelles hanno prodotto una pesantissima recessione (Pil a -5,5% nel 2011 e una previsione di un -2,8% quest’anno) aggravando anche i conti pubblici mentre il potere d’acquisto dei salari è crollato già del 40% e il tasso di disoccupazione raggiungerà il 17%. La Trojka avrebbe chiesto al governo interventi pari ad un ulteriore 1,5% del Pil: si va da un taglio del 25% di tredicesime e quattordicesime nel settore privato alla riduzione dell’integrazione pensionistica del 35% sino alla chiusura di 100 organismi pubblici con il licenziamento di altri 150000 dipendenti entro il 2015.
Nel mirino, oltre agli insegnanti con contratti a
termine, ci sarebbero il bilancio della sanità e quello della difesa: con un esercito di 130mila uomini la Grecia spende 5 miliardi di euro, pari al 3% del Pil. Tra i paesi della Nato solo gli Stati Uniti si collocano ad una percentuale maggiore (4,8% del Pil) mentre la media europea è intorno al 2,5%. Nella sanità, invece, la Trojka insiste perché vengano ridotti i costi dei farmaci mentre chiede che tagli e riforme del mercato del lavoro siano accompagnati dalla privatizzazione delle aziende ancora sotto il controllo dello stato la cui inefficienza, secondo le analisi di Bruxelles, sarebbe imputabile soprattutto all’altissima e cronica corruzione. L’eventuale dichiarazione di insolvenza da parte di Atene, secondo i mercati, potrebbe avere drammatici effetti di contagio nei confronti dei paesi maggiormente in difficoltà, come il Portogallo, con evidenti riflessi negativi anche sull’Italia e la Spagna. Andrea Di Stefano-ilfattoquotidiano