Prezzi in pillole, chi scende e chi sale in farmacia
 







di Ernesto Geppi




Le informazioni pubblicamente disponibili sul consumo dei medicinali in Italia sono molto aumentate negli ultimi anni. C'è l'indagine conoscitiva dell'Antitrust, se ne trovano in abbondanza sui siti dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), del ministero della salute, di Federfarma (l'associazione dei farmacisti), delle associazioni dei consumatori e dei vari think tank più o meno indipendenti nel settore. Data questa abbondanza di fonti, può essere interessante usarne un po' per ritornare criticamente su qualche punto dello stimolante monologo di Claudio Cavazza, presidente di Sigma-Tau e cioè di una delle dieci maggiori imprese attive in Italia nel settore farmaceutico, pubblicato venerdì scorso sulle pagine del capitale. In estrema sintesi, Cavazza si lamenta: non è vero che il prezzo in Italia sia più alto che altrove, è eccessivo il peso dello stato sia in quanto acquirente sia nella fissazione dei prezzi, c'è la pressione dei farmaci generici, la difficoltà di fare ricerca, il ricordo dei buoni vecchi tempi andati dell'industria farmaceutica italiana. Le lacrime d'impresa sono sempre costose da asciugare.
Come sottolinea l'Antitrust, quello dei farmaci non è un mercato e nemmeno il regno della concorrenza. Si tratta in realtà di alcune centinaia di mercati distinti, più o meno uno per principio attivo. Anche se le case produttrici sono più di trecento, i singoli mercati sono per lo più monopoli o al più oligopoli, protetti dal meccanismo pluridecennale dei brevetti. Cosa c'è di strano se lo stato mette becco nel monopolio di prodotti che servono a salvaguardare un bene pubblico come la salute? Di concorrenza si può parlare solo per i principi attivi con brevetto scaduto e dove dunque c'è stata la libera entrata dei farmaci generici. Non sono molti questi mercati: la spesa per farmaci di fascia A in Italia è ancora costituita per l'87% da farmaci protetti da brevetto. Nel consumo dei generici siamo parecchio indietro
rispetto ad altri paesi.
Non è vero che i farmaci hanno come unico compratore lo stato. Secondo l'Aifa, nel 2005 sono stati spesi 18,4 miliardi di euro per l'acquisto di medicinali nelle farmacie, più o meno una media di 320 euro a testa. Di questi, più di un terzo (115 euro) sono usciti direttamente dalle tasche dei consumatori, mentre la quota restante da quelle del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e cioè, indirettamente, del contribuente. Negli ultimi anni mentre la spesa Ssn è rimasta sostanzialmente stabile, sotto i 12 miliardi di euro, quella sostenuta direttamente dai cittadini dal 2001 è cresciuta più del 20%, raggiungendo i 6,6 miliardi.
Il grosso della spesa a carico diretto del cittadino riguarda i farmaci di fascia C, non rimborsabili dal Ssn. In particolare, 3,1 miliardi sono stati spesi per farmaci con obbligo di ricetta, che hanno un prezzo ufficiale al pubblico, mentre altri 2,1 miliardi di euro sono stati spesi per i farmaci senza ricetta e da banco. Per
questa ultima categoria, dopo le recenti liberalizzazioni il prezzo ufficiale può essere scontato dalle farmacie e i prezzi sono pertanto scesi un po' (fra il 5 e il 15% secondo le varie stime): vale la pena di notare che i recenti mal di pancia dei farmacisti hanno riguardato una porzione molto esigua (l'11%) delle loro vendite di medicinali. Il prezzo ufficiale dei farmaci di fascia C (quello scritto sulla confezione e che contribuisce al calcolo dei margini dei produttori) negli ultimi anni è invece diminuito molto poco.
Riduzioni consistenti, nel 2006 in media del 10%, hanno invece riguardato i farmaci di fascia A, sussidiati dall'Ssn. Sono riduzioni a carico soprattutto dei produttori e imposte dagli ultimi governi per contenere la spesa sanitaria. I cittadini hanno comunque contribuito in maniera diretta per circa 1,4 miliardi di euro, in parte (0,8 miliardi) per acquisti effettuati al di fuori delle prestazioni dell'Ssn e in parte (0,6 miliardi) sotto forma di ticket e di
quote non rimborsabili. In sostanza l'Ssn rimborsa in linea generale solo il prezzo del farmaco meno caro equivalente a quello prescritto. Un modo per risparmiare e per indirizzare il consumo verso i meno cari farmaci generici.
Diversamente dagli Usa, dove anche per i farmaci funzionano le politiche di marchio e dove il mercato è segmentato come se si trattasse di scarpe (prezzi alti per quelli di marca e bassi per i generici), in Italia questo non può funzionare perché la gente ingurgita meno medicine ed è meno disposta a spendere, e i prezzi dei prodotti di marca, scaduto il brevetto, si allineano a quelli dei generici. Sui confronti internazionali dei prezzi mancano però fonti ufficiali. Ci sono studi condotti fra gli altri da Bocconi, Cerm e Altroconsumo che confermano che in Italia i prezzi sono fra i più alti ma solo per colpa di grossisti e farmacisti.