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Quirinale, dieci candidati |
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All’appuntamento, il Big Game repubblicano, mancano ancora quattrocento giorni. Pochi, tanti? Dipende dai punti di vista. "Diciamolo chiaro, in un’altra epoca politica ora si parlerebbe solo di questo", ammette una vecchia volpe come Enzo Carra che di elezioni presidenziali da giornalista, da portavoce della Dc e da deputato ne ha seguite parecchie. E che il tema, in effetti, sia il pensiero fisso degli inquilini del Palazzo lo dimostra la gaffe di Pier Ferdinando Casini mesi fa nello studio televisivo di Lilli Gruber su La7, quando rispondendo a una domanda il leader dell’Udc si confuse: "Sa, io ho fatto il presidente della Repubblica...", per poi affrettarsi a correggere imbarazzato: "Volevo dire: il presidente della Camera. A certe cariche non si punta, sarebbe da sciocchi pensare di farlo". Ma intanto il lapsus di fronte alle telecamere aveva rivelato l’oggetto del desiderio. Il 15 maggio 2013 scadrà il mandato presidenziale di Giorgio Napolitano e nell’aula di Montecitorio si apriranno le urne per eleggere il dodicesimo presidente della Repubblica. Il rito più importante, il conclave laico che nella storia repubblicana ha sempre coinciso con un periodo convulso. Di grandi manovre, di colpi bassi, di cavalli di razza stramazzati al traguardo, da Fanfani a Moro, da Forlani ad Andreotti, a Massimo D’Alema che nel 2006 provò a farsi designare candidato del centrosinistra e fu costretto a fare un passo indietro, a favore di Napolitano. Fino a poche settimane fa il percorso sembrava segnato. Il governo Monti avrebbe dovuto accompagnare i partiti fino al voto del prossimo anno, come suggerito dal capo dello Stato al momento di conferire l’incarico all’ex commissario europeo, il 13 novembre: "Dopo questa esperienza la parola tornerà agli elettori senza che sia stata oscurata o confusa alcuna identità". E Mario Monti, già nominato da Napolitano senatore a vita, avrebbe avuto a quel punto tutte le carte in regola per essere scelto dal Parlamento appena eletto come nuovo presidente della Repubblica. Negli ultimi giorni, però, il refrain è improvvisamente cambiato. Il più rapido a intonare il nuovo ritornello è stato l’astuto Casini: "Monti nel 2013 riconsegnerà ai partiti e alla politica le chiavi del governo del Paese. Ma non è da escludere che i partiti le chiavi gliele riconsegnino, al termine della campagna elettorale", ha detto l’ex presidente della Camera. Aggiungendo: "Non basteranno pochi mesi di armistizio. La Grande Coalizione deve proseguire anche dopo il voto del 2013". Prospettiva condivisa da più parti. Altro che parentesi, Monti deve restare dov’è, a Palazzo Chigi, nel 2013 e chissà per quanto. Perché è il miglior premier di tutti i tempi. Perché c’è bisogno di lui nei vertici internazionali, nei Consigli europei, per uscire dalla tempesta finanziaria. E perché, conseguenza molto gradita a chi coltiva ambizioni quirinalesche, se il professore fosse riconfermato alla guida del governo lascerebbe libero il Quirinale. "Da assegnare a un politico", rivendicano nel Terzo Polo. E c’è già chi ipotizza il percorso di fine legislatura. Uno scioglimento tecnico delle Camere subito dopo l’estate, per andare a votare in autunno. Subito dopo nascerebbe il nuovo governo: un Monti-bis, con l’attuale maggioranza ma allargato a esponenti di partito. E si arriverebbe alle elezioni presidenziali del maggio 2013 con il premier saldamente a Palazzo Chigi. Così impegnato nel suo compito da non poter partecipare alla corsa al Quirinale, che spetterebbe invece ai politici maggiormente impegnati nella costruzione della grande coalizione governativa. Sul Colle più alto salirebbe così l’architetto di questa grandiosa costruzione. Il garante del governo tecnico non più chiamato a gestire l’emergenza ma a guidare il Paese per anni. L’amico di Monti. Le iscrizioni a questo concorso che porta in premio il Quirinale si sono aperte con inserimenti a sorpresa. Amico di Monti è certamente Casini, il più tenace sostenitore della necessità di andare avanti con l’esperimento della grande coalizione all’italiana anche nella prossima legislatura. Ma amico è anche Giuliano Amato, che nel resoconto sul suo ultimo viaggio a New York pubblicato sul "Sole 24 Ore" ha riportato l’interesse americano per il futuro del premier: "La domanda che mi sono sentito fare è perché l’Italia, avendo trovato un primo ministro di questa qualità, possa lasciarlo tornare a casa tra un anno. Non ho risposto, ma ho condiviso lo spirito". Grande amico di Monti è Romano Prodi, che è stato suo presidente negli anni della Commissione di Bruxelles ("il caro presidente Prodi", lo ha salutato il premier a gennaio in visita a Reggio Emilia) e che di recente lo ha festeggiato con particolare trasporto: "Il governo Monti ha compiuto cento giorni. Gli auguro che ne compia tanti altri". Ci tiene a segnalare la sua vicinanza al premier Massimo D’Alema, forte del suo incarico istituzionale al Copasir. E il presidente del Senato Renato Schifani, che per sgombrare gli ostacoli sul cammino del decreto liberalizzazioni a Palazzo Madama si è trasformato in un sottosegretario aggiunto. Ma l’autocandidato più sfacciato è sceso in campo negli ultimi giorni. Ringalluzzito per la prescrizione nel processo Mills, Silvio Berlusconi ha ricominciato a far circolare la voce che per il Quirinale lui sarebbe disponibile. In pubblico il Cavaliere si è tramutato nel più caloroso sostenitore del governo tecnico, trascinando con sé Giuliano Ferrara, Daniela Santanché, Alessandro Sallusti, anti-montiani pentiti: "Il suo programma è in continuità con il mio". In privato è ancora più esplicito: con il Pdl in dissolvimento sarebbe illusorio sperare di vincere le elezioni, meglio blindare l’attuale grande coalizione e proseguire con l’ex rettore della Bocconi dopo il 2013. Monti forever a Palazzo Chigi. E Silvio al Quirinale, naturalmente. Non c’è da stupirsi. Da tempo la presidenza della Repubblica non è più la pensione dorata di un notabile, ma il cuore del sistema, come ha scritto Eugenio Scalfari su "Repubblica" del 26 febbraio: "Durante la Prima Repubblica la scelta del capo del governo era affidata ai partiti. Nella Seconda Repubblica il sistema si avvicinò a quello presidenziale. Ora il premier è scelto dal capo dello Stato: il meccanismo adottato da Napolitano è quello che meglio corrisponde al dettato costituzionale e deve sopravvivere al governo Monti". Dopo la Prima Repubblica dei partiti di massa e la Seconda delle liste personali, ecco la Terza Repubblica, fondata sul Quirinale. Lo sbocco di quanto successo negli ultimi settennati, da Cossiga in poi, quando il Colle ha assunto un ruolo centrale. Fino al colpo di Napolitano, l’invenzione del super-professore a Palazzo Chigi con il voto di Pdl-Pd-Terzo polo. E’ lui, Re Giorgio, il regista dell’operazione Monti. Il protettore del governo tecnico. A costo di riservare sfuriate memorabili al suo partito d’origine, il Pd, giudicato troppo freddo nel sostegno. E passano da lui, l’ottantaseienne presidente, gli scenari futuri. La possibilità di un secondo mandato presidenziale era stata immaginata già due anni fa da uno dei migliori amici del capo dello Stato, Rino Formica. E ora viene rilanciata: "Napolitano andrebbe riconfermato, per due anni. Il tempo di terminare la transizione", si spinge a dire l’ex ministro berlusconiano Gianfranco Rotondi. Un’idea semplice, in fondo: se è necessario prorogare Monti a Palazzo Chigi, perché non fare altrettanto con Napolitano al Quirinale? Sarebbe la prima volta: mai c’è stata una rielezione. Ma coerente con l’obiettivo: traghettare l’Italia verso la Terza Repubblica. Presidenziale. Marco Damilano-l’espresso |
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