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Articolo 18, le macerie del Pd |
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Non bastava la questione morale che sta coinvolgendo pezzi da novanta del Pd, dal Nord al Sud della Penisola, dal caso Penati alle cozze pelose del sindaco di Bari Michele Emiliano per arrivare a sfiorare il cuore del Partitone, l’Emilia Romagna del super-governatore Vasco Errani. E neppure la tensione, comprensibile solo ai maniaci del genere ma potenzialmente esplosiva, sulla collocazione internazionale del partito, dopo il comizio parigino di Pier Luigi Bersani a favore del candidato socialista François Hollande che ha fatto infuriare l’ala cattolica del Pd. Perché è sulla riforma del mercato del lavoro che il principale partito del centrosinistra si gioca tutto: identità, rappresentanza sociale, alleanze, leadership. Con il rischio di una nuova faida a sinistra tra l’ala riformista, decisa a sostenere in ogni caso l’operato del governo Monti, e l’ala laburista vicina alle posizioni della Cgil, spinta a ricompattarsi sul piano sindacale con la Fiom di Maurizio Landini e sul piano politico con Nichi Vendola (e con Antonio Di Pietro). E con il fantasma, appena sussurrato ma ben presente nei pensieri dei capi di largo del Nazareno, di una clamorosa distinzione al momento del voto parlamentare sulla riforma tra i pasdaran montiani e i malpancisti, sempre più numerosi. L’incubo di una scissione nelle aule di Camera e Senato, dove i veltroniani favorevoli alla riforma sono ancora fortissimi. Una preoccupazione eccessiva? Mica tanto. Per capire con precisione che tempo che fa tra le varie anime del Pd dopo lo showdown del 20 marzo a Palazzo Chigi tra Monti e la Cgil bisogna avventurarsi a leggere il magazine on line "Qdr" ("Qualcosa di Riformista"), diretto da Antonio Funiciello, stretto collaboratore del senatore Enrico Morando, giovane intellettuale dell’ala liberal del Pd. Nell’ultimo numero, messo in Rete proprio il martedì della rottura, compare una finta lettera indirizzata a Susanna Camusso, firmata da Ana Pauker: dirigente comunista rumena di provata fede stalinista. "Compagna Susanna, ti esprimo tutta la mia vicinanza. In molti hanno segnalato la nostra somiglianza, anche fisica. Tu sei la principale continuatrice di un chiaro disegno politico. E anche se il comitato d’affari della borghesia dovesse sul momento sconfiggerti, la tua forza è ben superiore, proprio perché dentro un disegno tutto politico e niente affatto sindacale...". Solo uno scherzo? Mica tanto. Perché tra i collaboratori fissi della rivista ci sono, oltre a Morando, i senatori Pietro Ichino, Stefano Ceccanti, Giorgio Tonini e tutti gli esponenti di Libertà Eguale. E l’equazione tra la Camusso e la stalinista dirigente rumena spiega bene quali sono gli umori della corrente ultra-riformista più vicina a Walter Veltroni: arrivare a un regolamento di conti con i laburisti della segreteria Bersani, dal responsabile economico del partito Stefano Fassina al giovane post-dalemiano Matteo Orfini. Eppure negli ultimi giorni Bersani aveva tirato un sospiro di sollievo. "L’ipotesi di fare un congresso prima delle elezioni del 2013 non esiste più. Non lo vuole nessuno, neppure Walter", aveva spiegato il segretario ai suoi la scorsa settimana, prima della partenza per Parigi. E non aveva nascosto il suo scetticismo sulle trattative sulla nuova legge elettorale condotta per il Pd da Luciano Violante. Una legge che porterebbe alla Grande Coalizione anche nella prossima legislatura, come ha spiegato il professor Roberto D’Alimonte in un seminario organizzato da Rosy Bindi la settimana scorsa, e che allontanerebbe definitivamente Bersani dal sogno di arrivare a Palazzo Chigi dopo una vittoria alle elezioni. Né il segretario sembrava essere turbato dalle inchieste giudiziarie. Perché, si fa notare in largo del Nazareno maliziosamene, in fondo un personaggio come Emiliano è sempre stato un cavallo pazzo, incontrollabile per i vertici del partito. E la ferita alla sua immagine di sceriffo buono è un colpo mortale all’idea di una lista civica nazionale dei sindaci, fuori dal Pd. Anche sul caso Errani, la condotta di Bersani è stata mantenere calma zen. Uno stato d’animo che chi lo conosce bene riassume così: "Pier Luigi è fatalista. Lascia che le cose accadano, sperando di non farsi del male". Sulla riforma del mercato del lavoro, però, il fatalismo non basta. Come dimostrano le divisioni interne al partito che sono uscite allo scoperto a caldo, mentre era ancora in corso la conferenza stampa di Monti e Fornero, con quei toni definitivi ("La questione è chiusa", ha dettato il premier) che hanno fatto trasecolare il segretario del Pd. Da una parte la Bindi, presidente del Pd, che si schiera immediatamente dalla parte della Cgil in difesa dell’articolo 18 e dà l’altolà a una riforma del mercato del lavoro varata per decreto. In totale sintonia, su questo punto, con la segreteria Bersani: "Sarebbe la replica del decreto di San Valentino del governo Craxi sulla scala mobile". Era il 1984, anche in quel caso l’ala comunista della Cgil guidata da Luciano Lama restò isolata. Dalla parte opposta c’è il numero due del Pd, il vice-segretario Enrico Letta. Il più vicino a Monti, il più in sintonia con la Cisl di Raffaele Bonanni, punto di contatto tra i liberal di Veltroni e l’ala cattolica del partito. "Il nostro sì alla riforma Fornero è fuori discussione", spiega Letta. Un sì incondizionato, s’intende, senza se e senza ma. Un messaggio chiaro: chi pensa che durante l’iter alla Camera e al Senato della riforma il Pd dovrà trasformarsi in una sorta di braccio parlamentare della Cgil si sbaglia di grosso. Su una linea appattita sul sindacato di Corso d’Italia il Pd corre il pericolo di suicidarsi. Non è solo sul mercato del lavoro che le famiglie democratiche si stanno rimescolando. C’è la sintonia tra il vice-segretario e Veltroni, nata in nome dell’appoggio al governo Monti e sulla possibilità che la formula della Grande Coalizione esca confermata anche nella prossima legislatura. Letta partecipa ai seminari della fondazione Democratica di Veltroni e di lui si è già parlato come di un candidato premier di raccordo tra le varie anime del Pd e tra il Pd e il centro di Pier Ferdinando Casini. Ma anche l’ala cattolica è in subbuglio. Agli ex popolari non è piaciuta per nulla la gestione del caso Lusi-Rutelli, le uscite del tesoriere degli ex Ds Ugo Sposetti contro i dirigenti della Margherita ("Devono dire come hanno usato i rimborsi elettorali"), le punzecchiature dei compagni di strada. "Gli ex Ds ci dicono che abbiamo rubato, che chiediamo solo posti e che facciamo pure perdere voti", si sfoga un dirigente dell’ex Margherita. Come se non bastasse l’ex ministro Giuseppe Fioroni, capocorrente dei popolari, insieme a Marco Follini ha aperto anche il fronte internazionale, attaccando il viaggio di Bersani a Parigi in appoggio al socialista Hollande. E trama per partecipare a un comizio del candidato centrista François Bayrou. Con il risultato che ci sarebbero due Pd anche a Parigi, oltre che a Roma. E Fioroni è il democratico più vicino al segretario della Cisl Raffaele Bonanni, decisivo con il suo sì al tavolo con il governo. Ma ora la partita si sposta in Parlamento, dove per il Pd di Bersani lo spazio di manovra è obbligato: concentrarsi sulle modifiche al testo del governo, quando approderà a Palazzo Madama e a Montecitorio, sul punto chiave su cui è saltato il dialogo con la Cgil, la possibilità di ricorrere al giudice per il reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici. Non facile, dato che nei prossimi giorni la tensione sociale è destinata a salire e che a distanza di dieci anni esatti dalla manifestazione del Circo Massimo convocata dalla Cgil di Sergio Cofferati (23 marzo 2002), anche in quel caso in difesa dell’articolo 18, le spinte a tornare in piazza diventano irresistibili: la Cgil ha subito proclamato uno sciopero generale di 8 ore. Per Bersani è il grande pericolo: il suo Pd potrebbe spaccarsi sul punto più delicato, che coinvolge l’identità del partito. E in quel caso l’intera operazione Monti si rivelerebbe un drammatico boomerang, mettendo il Pd nella condizione di dover scegliere tra la crisi di governo, assumendosi la responsabilità della rottura, o muoversi nell’irrilevanza, lasciando le praterie elettorali ai partiti alla sua sinistra. Ma potrebbe rivelarsi anche una grande occasione: fare in Parlamento, con le armi della politica politica, quello che ai tecnici non è riuscito: arrivare alla riforma con il consenso di tutte le parti sociali. E’ sull’articolo 18 che nascerà o morirà un leader chiamato Bersani. Marco Damilano-l’espresso
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