Nuvoli: -Voglio andare a casa. E decidere io-
 







di Costantino Cossu




«Sono vivo, se vita si può chiamare questa mia permanenza in un involucro che non riconosco più come il mio corpo. Questo accanimento nel tenermi in vita mi sembra assurdo, ipocrita, inutile». Sono parole di Giovanni Nuvoli, l'uomo sardo affetto da distrofia muscolare amiotrofica e che ha chiesto di poter morire. Parole molto simili aveva scritto anche Piergiorgio Welby sul suo blog, e la sua rivendicazione, quella al «diritto civile, politico, personale ad una morte naturale», è stata ora fatta propria da questo paziente.
«Come nel caso Welby, sia Giovanni che io - ha scritto pochi giorni fa Maddalena Soro, la moglie di Nuvoli, in una lettera indirizzata all'europarlamentare radicale Marco Cappato - abbiamo sentito il bisogno di dare un senso diverso alla sua sofferenza, cercando di contribuire ad abbattere il muro insopportabile di ipocrisia e idiozia benpensante che continua a circondare queste storie. Non cercate di immaginare cosa siano
stati questi anni per me. Non ci riuscireste. Giovanni ha gli occhi disperati che urlano».
Un nuovo, tragico «caso Welby», dunque. Due storie a confronto dalle mille similitudini. E con un unico filo rosso: la battaglia per il diritto a una morte dignitosa. Nuvoli, che ha cinquantatré anni, prima di sentir pronunciare la tragica diagnosi faceva l'arbitro di calcio. Oggi pesa poco più di venti chili, per un metro e ottantacinque d'altezza. Una distrofia muscolare progressiva lo ha portato a dipendere, ormai da sei anni, da un respiratore. Per comunicare, la moglie gli mostra una lavagnetta e lui sbatte le palpebre all'indirizzo delle lettere luminose. Perché si arriva al punto in cui la malattia inibisce qualunque movimento, ad eccezione di quelli oculari e labiali. Inevitabile pensare alle persone che accompagnano le giornate di questi malati: la signora Mina, fino alla fine accanto a Welby, e la moglie di Nuvoli, che ogni giorno dialoga con lui con una lavagnetta. Due percorsi di
vita che hanno portato alla stessa richiesta: nel 2006, Welby presenta un ricorso al Tribunale di Roma per il distacco del respiratore ma, a distanza di pochi mesi, il giudice dichiara inammissibile il ricorso. Altrettanto è successo a Nuvoli: il sostituto procuratore del tribunale di Sassari Paolo Piras ha dichiarato inammissibile la richiesta di staccare la spina previa sedazione. Ma mentre Welby ha trascorso gli ultimi anni costretto a letto nella sua casa, Nuvoli è ricoverato nel reparto di rianimazione dell'ospedale di Sassari. I medici hanno detto che si atterranno al nuovo codice professionale, dove si afferma che «il medico anche su richiesta del malato non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati alla morte». Si richiamano, inoltre, all'articolo 579 del codice penale, che proibisce l'omicidio del consenziente.
Tre giorni fa Nuvoli ha chiesto di essere immediatamente dimesso dall'ospedale e di fare ritorno a casa. Lo ha fatto con un un fax inviato dalla moglie al
direttore generale dell'Asl, al direttore sanitario della stessa Asl, al primario del reparto di rianimazione dell'ospedale di Sassari Demetrio Vidili e, per conoscenza, al pm Piras. «La presente - si legge nel fax - valga per il pm, in caso di difetto di positivo riscontro, quale denuncia-querela, con espressa istanza di punizione dei colpevoli per il reato di violenza privata e per ogni altro reato che potrà essere ravvisato». Ma il magistrato, dopo aver parlato con i medici e i dirigenti della Asl, ha detto che non ci sono ancora le condizioni perché Nuvoli lasci l'ospedale. Quanto alla denuncia-querela dell'ammalato contro «i colpevoli» di presunta violenza privata per l'imposizione a restare in reparto, il pm non ha ravvisato alcun estremo di reato.
«Da quattordici mesi - protesta Maddalena Soro - mio marito sta disteso su un lettino del reparto di rianimazione. Non ci voleva andare, ma i medici dicevano che solo lì poteva essere curato. E non è vero. Ora chiede di essere
trasferito a casa. Poi spetterà a lui decidere. Giovanni ha soprattutto bisogno di essere ascoltato. Ha bisogno di attenzione, non di medici che decidono per lui».da Il Manifesto