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Destra, cosa resta senza B. e B. |
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Siamo il trapezista che si prepara a fare un numero che non ha mai provato. E senza rete. Ora non potremo più giustificarci come facevamo prima: l’ha detto il Capo, lo vuole Bossi. La rete che ci proteggeva non c’è più ...". Il deputato della Lega reduce dalla sera dell’orgoglio padano di Bergamo, tra le scope sul palco, le lacrime del Leader, i cori dei militanti e un cappio che torna sinistramente a sventolare in platea, fotografa il momento più difficile del Carroccio. La grande paura evocata da Roberto Maroni sul palco, sia pure per esorcizzarla: "La Lega non è morta, la Lega, la Potentissima, non morirà mai". Il terrore di finire, come i partiti della Prima Repubblica travolti dalle inchieste giudiziarie e estinti nel giro di mesi. La prima verifica è vicina. Le amministrative del 6 maggio dovevano servire a misurare i rapporti di forza, con la Lega tornata all’opposizione del governo nazionale all’assalto del Pdl nei comuni del Nord. Una data attesa da tutti i partiti come l’inizio dello showdown che porterà alle elezioni del 2013: nuove alleanze, nuovi soggetti politici, solo il Carroccio sembrava al riparo, nel suo fortino elettorale. E invece, a sorpresa, è dal terremoto in casa Bossi che arriva il primo scrollone dell’era Monti. E nel circo della politica italiana il trapezista in camicia verde rischia di schiantarsi. Alla fine della settimana più nera il partito ex bossiano, finora dato in ascesa nei sondaggi, perde almeno tre punti, scende secondo la stima di Nando Pagnoncelli dal 9,5 al 6,5. Elettori in libera uscita che vanno a ingrossare il bacino delle astensioni, per ora. E la Lega, il partito più antico e più solido, si trasforma in un’incognita: riuscirà il nuovo gruppo dirigente del dopo Bossi a conservare il granaio di consensi raccolti al Nord, oltre tre milioni alle elezioni del 2008, il 35 per cento in Veneto e il 26 in Lombardia conquistati due anni fa, alle Regionali del 2010? E riuscirà a evitare la secessione, non quella della Padania dall’Italia, ma quella dei leghisti veneti, inquieti e filo-governativi, dai lombardi che guidano il movimento da sempre e che sono coinvolti direttamente nello scandalo? C’era una volta Bossi che teneva unite le anime e i territori. Gli identitari padani e i bravi amministratori, in tutto simili ai borgomastri della Dc di un tempo. I cattolici tradizionalisti e i neo-pagani. Gli iper-liberisti e i protezionisti. Gli operai iscritti alla Fiom, le partite Iva e i piccoli imprenditori. Con qualche sfondamento nel salotto buono, negli anni dell’egemonia a Roma, quando anche i grandi banchieri alla Massimo Ponzellini si ricordavano di vantare le loro radici padane. Un miracolo politico, costruito dal Senatur in due decenni a colpi di annessioni (la Liga Veneta disciolta nel 1989 con un atto notarile nella Lega Nord egemonizzata dai lumbard) e di espulsioni (Franco Castellazzi, Franco Rocchetta, Gianfranco Miglio, Irene Pivetti...). E che ora, senza Bossi, e senza il collante del governo romano, potrebbe sfasciarsi. La caccia all’elettorato leghista si è aperta pochi istanti dopo le dimissioni del Senatur dalla segreteria. Quando alle porte della sede di via Bellerio ha bussato Giulio Tremonti. L’amico delle ore liete del potere, le serate a Ponte di Legno e le cene degli Ossi in Cadore, i vertici di Arcore e di palazzo Grazioli, considerato dai berlusconiani una quinta colonna del Carroccio. Talmente filo-padano che una volta il siciliano Gianfranco Miccichè, incontrandolo in un ascensore di via dell’Umiltà, quartier generale di Forza Italia e del Pdl, lo prese in giro: "Almeno alle prossime elezioni spero che ti asterrai dal votare per la Lega!". E non ricevette risposta. "Dovevo andare, per amicizia e per riconoscenza. Quando c’è stato il caso di Marco Milanese e provarono a farmi fuori Umberto fu il primo a solidarizzare con me", ha spiegato agli amici l’ex ministro dell’Economia. Ma non è una questione privata: Tremonti è tra i più interessati allo scongelamento del monolite leghista, con il suo progetto, mai abbandonato, di un partito del Nord modello Csu della Baviera, i cristiano-sociali guidati per decenni da Franz Josef Strauss e alleati con i democristiani nel Bundestag tedesco. Un’operazione che nei piani dell’ex inquilino di via XX Settembre era destinata a scattare subito dopo le elezioni amministrative, dopo il prevedibile crollo del Pdl. Fino a una settimana fa il copione sembrava già scritto: la Lega all’attacco dei voti del Pdl, paladina del Nord stremato dalla cura del governo Monti con il colpevole sostegno del partito azzurro. Quasi ovunque candidata da sola e pronta a strappare voti all’ex alleato berlusconiano. Una strategia che a Verona ha già dato i primi risultati quando mezzo Pdl ha deciso di appoggiare il sindaco Flavio Tosi provocando la sospensione di 14 esponenti azzurri. Ora la tempesta al vertice della Lega rimette in discussione tutto. E riapre la partita al Nord anche per l’esangue Pdl di Angelino Alfano, il gemello di Bobo Maroni, che già qualche mese fa aveva provato a stipulare con il suo collega ministro dell’Interno un patto tra delfini. Ma i delfini sono gracili e i loro capi sono in disarmo. L’amico Silvio assiste con malinconia al tramonto di Umberto. E non sembra avere più voglia di lanciare un’opa sull’ex alleato, come provò a fare nel 2004, all’epoca dell’ictus di Bossi, quando il gruppo di comando leghista fece diga per schivare le avances del Cavaliere. Difficile che il tentativo possa ripetersi: nel raduno di Bergamo gli umori della base erano nettamente anti-berlusconiani. E gli uomini del Cerchio magico coinvolti nello scandalo erano i principali sostenitori dell’asse con Berlusconi. A partire dall’ex ministro Roberto Calderoli, il più filo-berlusconiano dei colonnelli in camicia verde. L’uscita di scena di Bossi chiude quella fase, la coppia dei due padroni del Nord che ha dominato per un ventennio, e ne apre un’altra: la Lega torna spendibile per tutti i giochi politici. E per tutte le alleanze. "La Lega riconquista la sua autonomia", traduce Daniele Marantelli, deputato di Varese del Pd, amico di Bossi e di Maroni, ambasciatore di Pier Luigi Bersani in terra padana. "La grande scommessa di Bobo è questa: garantire alla Lega la libertà d’azione. I leghisti hanno perso l’autonomia da Berlusconi, non solo per motivi politici. Hanno ingoiato tutto in cambio di nulla. La colpa del Cerchio magico è stata quella di aver isolato Bossi dal sentimento popolare. Non ha avvertito che la crisi economica, la stretta del credito, le piccole aziende che chiudono, colpivano soprattutto l’elettorato del Nord. Il dogma dell’alleanza con Berlusconi li ha portati alla rovina. Ora c’è l’occasione di tornare alla Lega delle origini, che parlava pragmaticamente con tutti. E che non era serva di nessuno". Il corteggiamento di Bersani è appena all’inizio. Ci sono gli ottimi rapporti con Maroni (Bersani partecipò insieme all’allora ministro del Welfare a una festa della Lega a Busto Arsizio nel 2006, Bossi e Calderoli restituirono la visita alla festa del Pd di Firenze nel 2008), attenzione per quanto si muove nella pancia del Carroccio, offensiva sull’elettorato del Nord. "L’errore da evitare è costruire un cordone sanitario attorno alla Lega, sarebbe un regalo", avverte Marantelli. "Ma per fortuna Bersani non ha la puzza sotto il naso: tra i leader è quello che si fa meno impressionare dai fattori simbolici". Pazienza, insomma, se nei prossimi mesi la neo-Lega di Maroni sarà costretta a esibire tutti gli slogan e le parole d’ordine del passato, dalla lotta all’immigrazione clandestina all’attacco all’Europa dei banchieri lontana dai popoli, come già si è visto in questi giorni. Bisogna scaldare il cuore della base per sopravvivere, sono cose che a sinistra si comprendono benissimo, nel Pd non si lasceranno impressionare. "Chi è più intelligente si porta a casa la Lega", sintetizza il deputato con Alberto di Giussano sul bavero di ritorno da Bergamo. "Adesso i nostri militanti vogliono sentirsi ripetere che andremo alle elezioni da soli e noi glielo diremo. Ma sappiamo bene che la partita grossa è sparigliare, tornare al centro dei giochi politici. Fare le riforme con chi ci sta: con l’Udc di Casini, con il Pd. Con il Pdl non direi, al Nord i Formigoni, i La Russa, stanno messi peggio di noi. I nostri sindaci, soprattutto in Veneto, non ci stanno più in un partito che ha in testa il casco con le corna dei barbari. Quella era la creatura di Bossi, eravamo tutti stanchi, ora la discontinuità imposta dall’esterno potrebbe diventare un valore aggiunto. E questa vicenda dolorosa sarà per noi liberatoria". E’ la speranza del leghista che non vuole morire bossiano. La Potentissima Lega, come la chiama Maroni, a rischio scomparsa. Fare politica per non sparire. E non lasciare spazio a chi si candida a conquistare i voti del Carroccio in libera uscita. Compreso l’aspirante erede più imprevisto: quel Beppe Grillo che nelle ore più difficili sul suo blog ha difeso a sorpresa Bossi. E che ha invece attaccato Maroni, "il nano Bagonghi con gli occhialini rossi". Il suo Movimento a Cinque Stelle intercetta i leghisti arrabbiati e delusi. E anche Bossi cominciò con un Vaffa. Marco Damilano-l’espresso
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